Amatrice grida

Un viaggio appassionato nel paese simbolo del terremoto che ha devastato il centro Italia. Giovanni Grieco: «Il cimitero devastato con le bare sparse, gli attimi di vita cristallizzati nelle case. Da brividi»

Un terremoto non fa rumore solo quando arriva, scuote, distrugge e uccide. Un terremoto fa rumore sempre, ancora e ancora: fa rumore nelle macerie, nei morti e nei vivi, nelle grida d’aiuto, fa rumore nei silenzi.

Ecco cos’è stato il viaggio che vi raccontiamo: un viaggio nel rumore, nel paese diventato simbolo del terremoto che ha devastato l’Italia. Un viaggio ad Amatrice. Giovanni Grieco mescola con lo sguardo entusiasmo e tristezza, mentre ci parla di quel che ha fatto e di quel che ha visto. Mosso dalla voglia di dare una mano. «Perché – dice – la solidarietà a parole è qualcosa che tutti sono capaci di fare: poi, alzarsi dalla sedia e andare a fare qualcosa dove serve è un po’ più complicato».


Perché sono entrato in contatto con questo gruppo di Torino, guidato dalla dottoressa Elena, in partenza per le zone colpite dal sisma per portare aiuto psicologico. Ho voluto seguirli, spinto dalla convinzione che in qualche modo ci sarebbe stato bisogno di me.


Ho volutamente aspettato un po’. Perché quando accade una tragedia, i riflettori sul dolore restano accesi e si concentrano aiuti e solidarietà. Poi passa il tempo, ed ecco che l’interesse si affievolisce: ma restano i bisogni e le difficoltà. Le tragedie, invece, non andrebbero lasciate nel dimenticatoio: bisogna tenerle vive, sempre.


Una meravigliosa voglia di rialzarsi, di riprendere, di ricominciare. Certo: gli anziani sono ancora scossi e colpiti, guardandoli mi pareva di vedere quei pugili messi alle corde e suonati. Ma credo sia normale, credo sia comprensibile. I giovani, no: i giovani hanno voglia di fare. Però si scontrano con mille difficoltà.

No. Le difficoltà di un paese bloccato dalla burocrazia. Faccio un esempio. Abbiamo visitato una stalla, bellissima e nuova di zecca, ricostruita grazie ai contributi della Regione Lazio. Ecco, questa stalla è chiusa perché l’Asl ha deciso che non è a norma. E c’è gente che ha le bestie sparse in giro per la regione, che vorrebbe rimettersi a fare ma non può.

Il lavoro. Proposte vere e concrete, a lungo termine. Perché la solidarietà fatta di aiuti va bene nell’immediatezza della tragedia, ma alla lunga appiattisce e svilisce. Bisogna ricreare le condizioni per far ripartire il lavoro in queste terre. Giù ho trovato un gruppo di ragazzi che ha messo in piedi un piccolo negozio dove vendono dei prodotti locali. Io ho acquistato del vino, dei salami, qualcosa. La ragazza che stava ditro il bancone mi ha guardato e mi ha detto: “Lei compra queste cose per compassione, per aiutarci: vero?”. Io non ho detto nulla, ma in cuor mio sapevo che aveva ragione. Ecco cosa dobbiamo cambiare: il tempo della compassione è finito, ora bisogna rimettere in piedi il futuro.

Benissimo. Perché il gruppo della dottoressa Elena porta aiuti veri, concreti, di cui c’è enorme bisogno. Un altro esempio. Elena aveva il numero di telefono di una donna che era stata segnalata perché bisognosa di un supporto psicologico. Lei l’ha chiamata, ma il numero era sbagliato: la persona al telefono non era quella segnalata. Elena ha fatto per scusarsi, quando la signora dall’altra parte del telefono l’ha fermata subito: “Anch’io, guardi, ho bisogno di supporto psicologico”. E hanno parlato a lungo, e Elena l’ha aiutata a superare un momento difficile: così, quasi per caso.


A chi si è visto piombare addosso qualcosa di enorme, di devastante, di terribile. A chi ha perso tutto e ora non sa come ripartire. A chi non ha più casa sua, e a chi non ha più una madre, un padre, un fratello o un figlio. E supporto anche ai soccorritori. Ho parlato con uno di loro che, ancora devastatpo, mi ha raccontato di avere scavato tra le macerie e aver visto quattro piedi: due dei quali avevano le unghie con lo smalto, quindi erano di una donna. Togliendo le ultime macerie e scoprendo i corpi, ha trovato una coppia abbracciata. Con l’uomo che fino all’ultimo ha cercato di proteggere la sua donna.


Ho ascoltato. Ho ascoltato persone che raccontavano i momenti delle scosse, il buio e la paura. La morte. Ho guardato. Ho guardato le macerie, il cimitero sbriciolato con le bare sparse in giro. Gli occhi di quell’anziano che passava tutto il giorno a fissare la collina perché là c’è la sua casa e lui ci vuole tornare ma non può farlo. Ho pianto, certo: ma questo me lo tengo per me, insieme ad altre cose.

In una storia drammatica. Quella di una famiglia di allevatori – padre, madre e due ragazzi – che nel terremoto ha perso uno dei due figli. Un giovane straordinario, amatissimo da tutti in paese, uno che si faceva in quattro per aiutare gli altri perché nella sua famiglia gli erano stati inculcati questi valori. Il suo ricordo, la voglia di andare avanti nonostante questo dolore enorme, la fierezza di questo padre e di questa madre. Ecco: come si fa a non essere ottimisti?


Le case squarciate che mostravano ancora la vita, interrotta d’un tratto. Un bagno con lo spazzolino da denti nel bicchiere. Una sala da pranzo con un piatto sulla tavola e la giacca appesa alla sedia. Una cucina con la pentola appoggiata sul fornello. Cristallizzate dalla morte.

Sì, ma non da solo. Voglio acquistare una casetta prefabbricata da portare giù, e voglio trovare il modo di farlo: coinvolgendo amici, come quelli che mi hanno già aiutato nel primo viaggio. Quelli della P.M. Rent, per esempio: che mi hanno dato una mano con il furgone e la benzina. Gesti apparentemente piccoli, capaci di fare la differenza. Che io ringrazierò sempre.