Avete mai visto un burqa a Varese?

L’editoriale della nostra Simona Carnaghi di domenica 29 novembre 2015

Alzi la mano chi ha mai visto una donna con un burqa aggirarsi per le strade di Varese? Nessuno, a quanto pare. E certo se vi fosse un varesino che si sia mai imbattuto in un fatto simile è pregato di comunicarcelo: sarebbe una notizia rara, rarissima, praticamente unica. Eppure una mozione presentata lo scorso gennaio che vieta il burqa a Varese pare, a distanza di 11 mesi, divenuta una priorità assoluta per l’amministrazione e non solo per l’amministrazione,

a giudicare dalla moltitudine di commenti che suscitano articoli e dichiarazioni sull’argomento. La spinta che ha dato slancio alla mozione sino a portare la maggioranza a chiedere al prefetto un’ordinanza urgente arriva dal vicino Canton Ticino. Terra in cui parrebbe non vi fossero normative precedenti, al contrario di quanto accade sul nostro versante del confine (per una volta siamo arrivati primi) dove invece vige l’obbligo di essere sempre identificabili e quindi di non andare a passeggio “travisati”, e dove quindi il divieto può avere un senso. E poi ci sono stati gli attentati di Parigi, che hanno lacerato, scioccato, impaurito e fatto incazzare ciascuno di noi. Persino la donna o l’uomo più razionale, ripensando alle immagini di morte in diretta alle quali abbiamo assistito, può cadere in tentazione. Burqa simbolo d’oppressione, non solo nei confronti delle donne (trattate come spazzatura dai terroristi fondamentalisti) ma di tutto ciò che rappresenta il nostro stile di vita, la nostra cultura, la nostra civiltà e le nostre radici. Anche il più moderato di noi, davanti alla morte in diretta deve aver pensato (lo abbiamo fatto tutti) «ci ammazzano per strada come cani», e per un attimo legge in quel divieto una posizione forte a tutela di tutto ciò che noi siamo. Una difesa, una vibrante protesta, uno sdegnoso no. Ma alzi la mano chi di noi ha mai visto qualcuno aggirarsi per Varese con addosso un burqa? Parigi non se andrà mai, e probabilmente non se ne andrà mai nemmeno la paura che quella Parigi lì, quella della generazione Bataclan, ci ha lasciato dentro. Ma se questo divieto fosse stato una priorità salva vita perché la fretta, l’accelerazione è arrivata dopo 11 mesi circa? Varese è già in clima elettorale e un buon politico conosce molto bene il proprio elettorato. Sa come pungolarlo scegliendo la testa oppure la pancia. Oggi vietare il burqa a Varese è certamente, dato il momento storico, battaglia di grandissimo effetto e pure a costo zero. Ma quanto concretamente serve a migliorare la qualità della vita dei varesini? Trattandosi di amministratori locali non sarebbe meno scenografico ma certamente più efficace dare una bella accelerata alla riasfaltatura delle strade? A progetti che permettono al varesino di sentirsi davvero più sicuro, o di avere a disposizione servizi migliori, di lavorare, mangiare, dormire, produrre o acculturarsi, insomma di vivere meglio davvero? Certo si potrebbe dire che il divieto è preventivo. Un giorno potrebbe pure accadere di avere il centro invaso da migliaia di burqa ma nel frattempo i varesini continueranno ad avere espressioni molto colorite incappando in una buca nella strada, inciampando sul marciapiede malmesso, girando e rigirando alla ricerca di un parcheggio. E allora ben venga l’accelerata per trasformare Varese in una città senza burqa, ma il progetto dovrebbe correre parallelo a interventi magari banali e ordinari ma che certo dovrebbero procedere altrettanto speditamente.