Aylan scuote le coscienze. Anche le nostre

Le grandi firme del giornalismo varesino commentano la scelta di alcuni giornali di mostrare la foto del piccolo profugo

L’impressione è quella di un pugno allo stomaco. Poi arriva il gelo, il freddo trasmesso da un corpo immobile inzuppato dall’acqua del mare. L’immagine di Aylan, tre anni, in fuga dalla Siria con la famiglia, ha fatto il giro del mondo. Il bambino è dentro una fotografia; morto, con la nuca rivolta verso il lettore di alcuni quotidiani o dello spettatore di alcuni Tg nazionali. La magliettina rossa, i calzoncini, le scarpine minuscole; tutto adagiato sulla spiaggia di Bodrum quasi priva di turisti a causa del brutto tempo quel giorno, il giorno in cui il mare ha restituito il corpo di Aylan.
Uno scatto rimbalzato in rete sui social, postato, commentato. Uno scatto destinato a far riflettere. E a far discutere.

Giusto pubblicare la fotografia di un bambino morto? Lo abbiamo chiesto a cinque firme del giornalismo varesino e non varesino. Il Manifesto e La Stampa hanno scelto di pubblicare quell’immagine in prima pagina. , direttore de La Stampa, consapevole dell’effetto della scelta fatta ha spiegato ai lettori il perché ha deciso di infrangere forse l’ultimo tabù dei media: «Questa foto farà la Storia come è accaduto ad una bambina vietnamita con la pelle bruciata dal napalm o a un bambino con le braccia alzate nel ghetto di Varsavia –

scrive Calabresi – È l’ultima occasione per vedere se i governanti europei saranno all’altezza della Storia. E l’occasione per ognuno di noi di fare i conti con il senso ultimo dell’esistenza». Sky Tg24 ha invece compiuto la scelta opposta non mostrando quell’immagine.
Pubblicare o non pubblicare? E perché? «Sì l’immagine di quel bimbo doveva essere pubblica per l’eccezionalità del fatto storico – dice , firma del Corriere della Sera – Eccezionalità, qui, è ciò che voglio sottolineare. Eccezione, quindi, fatto che travalica le regole per documentare un momento storico intero che quella fotografia riassume senza che vi sia bisogno di aggiungere parole». Un bimbo morto su una spiaggia che riassume la drammaticità di un esodo epocale. «Ci sono altre immagini che hanno avuto in passato questa capacità – spiega Del Frate – L’immagine del cadavere di Aldo Moro riverso nel bagagliaio di quella Renault. In normali frangenti non si fa. Ma quell’immagine cristallizzava in tutta la sua drammaticità il momento storico che il nostro Paese attraversava».

Identica posizione è quella di

, storico caporedattore del Corriere della Sera: «Sì, è un’immagine forte. Lo è anche quella del Cristo in croce, ma è impossibile prescinderne. Certo c’è la controparte dei coniugi uccisi da un profugo. Io avrei pubblicato entrambe le fotografie». Dal Fior aggiunge: «Non bisogna indugiare, ovviamente – spiega – Noi raccontiamo un fatto. E un’immagine è parte del racconto. Di un omicidio si pubblica la fotografia. Certo evito di indugiare sulla chiazza di sangue. Fa male? Sì. Io penso che il punto, quando si raccontano questi fatti, sia sempre quello di scrivere come se fossimo dei familiari della vittima».


Opposta posizione è quella di

, direttore de L’eco di Bergamo. «Non la pubblicherei e infatti non l’ho pubblicata – spiega – Chi ha una visione politica che apre all’accoglienza dirà che l’immagine andava pubblicata. Chi è contrario dirà che quel bimbo non avrebbe neanche dovuto mettersi in viaggio. L’immagine lascia spazio all’emotività: io preferisco che ci si focalizzi sul fatto. Calabresi ha detto che è un’immagine simbolo come quella della bimba vietnamita sotto il napalm o del bambino con le mani alzate nel ghetto di Varsavia. Non sono d’accordo. Il punto è semplice: quei bambini erano entrambi vivi».

Non avrebbe pubblicato l’immagine nemmeno , giornalista Rai: «Io sono anche un padre – spiega – Non sono d’accordo che sia quella foto a risvegliare le coscienze. Non critico chi ha fatto la scelta opposta, ovviamente. Ma penso che ci siano lettori che quell’immagine non possano sopportarla. E siccome credo che i giornali debbano essere letti da tutti, penso che siamo noi a dover agire da filtro».
Infine , direttore di Rete55: «Il mio è un telegiornale locale, non avrebbe senso pubblicare quell’immagine – spiega – Ma lo avrei fatto in altri contesti. L’ho postata sul mio profilo Facebook, per esempio, spiegando il perché di questa scelta. In quell’immagine c’è il momento storico. Come nelle immagini degli aerei che l’11 settembre bucano le torri. Non è tra l’altro un’immagine macabra. Il bambino non è dilaniato da una bomba. Sembra addormentato. Io credo che ci sia dignità in quell’immagine pubblicata se lo si fa per scuotere le coscienze».