Un varesino nel bunker anti-ebola

Giuliano Rizzardini è primario di malattie infettive dell’ospedale Sacco, centro di riferimento nazionale.«Ho conosciuto quel male nel 2000, in Uganda». E oggi è pronto coi suoi esperti a gestire le emergenze

Si chiama è il primario del dipartimento di Malattie infettive del Sacco – centro nazionale di riferimento con lo Spallanzani di Roma – e custode del “bunker” anti ebola di Milano.
Rizzardini è varesino e si è formato, per così dire, “sul campo”. Ed è un esperto di Ebola. «La mia formazione nell’ambito delle malattie infettive – spiega – è iniziata in un ospedale missionario in Uganda, con il quale continuo a mantenere contatti».
«Nel 2000 ero lì durante l’epidemia di Ebola e ne ho seguito la fase finale». Infatti, l’epidemia più devastante del Paese si era verificata proprio nel 2000, quando 425 persone erano state contagiate, e più della metà morte.

Nel 1988 l’infettivologo varesino inizia a lavorare all’interno dell’ospedale Sacco, poi diventa primario del reparto di Malattie infettive dell’azienda ospedaliera bustocca per far ritorno di nuovo al Sacco, alla guida dello stesso reparto in cui oggi dirige una task force di esperti, nel 2005.
Il reparto di Malattie infettive dell’ospedale milanese, che si occupa di Aids, tubercolosi, Sars, aviaria e febbri emorragiche, conta 70 posti letto di cui 15 possono essere trasformati in un “bunker”

nel caso si verificasse un’emergenza.
«Dopo l’epidemia di Sars del 2003, il reparto ha attivato questa procedura di isolamento di una porzione del padiglione per curare pazienti con malattie particolarmente virulente e infettive, soprattutto per l’alto contenimento di febbri emorragiche, come nel caso dell’Ebola. In questo caso, la direttiva ministeriale ci chiede di essere pronti nel caso in cui l’epidemia dovesse raggiungere il nostro Paese. Quindi, da tempo, stiamo oliando il meccanismo».
L’automatismo è creato da addestramenti e esercitazioni ripetute che vanno dalla vestizione alla svestizione, dagli spostamenti in sicurezza per evitare il contagio sia del personale-medico di turno, ma anche dei pazienti ricoverati, sino al trattare le fiale di sangue piene di virus.
«All’interno di questi corsi di addestramento costanti sono coinvolte circa 150 persone tra personale medico-infermieristico del reparto, a quello dei reparti del Pronto Soccorso e della Rianimazione. C’è poi una task force, formata da due gruppi (20 persone circa tra medici e infermieri) che sono formati per l’utilizzo dell’ambulanza speciale».

Si tratta, infatti, di un camper a tre piani: uno per il paziente che viene trasportato in una barella isolata e per il personale in scafandro, un altro per il personale di supporto e per il materiale, il terzo dedicato alla guida. Nella barella è installato un oblò che serve a spostare il malato da una barella all’altra mantenendo l’isolamento.
Per ogni malato una stanza alla quale si accede, attraverso un corridoio, i cui accessi si aprono in sequenza solo attraverso l’utilizzo di badge. Il personale che si prende cura del malato indossa uno scafandro, occhialini e respira aria asettica, grazie ad appositi filtri posizionati sulla schiena.
Un elettromotore, montato in vita, gonfia poi la tuta a tenuta stagna. «Al momento, non ce n’è nessuno che parli di rischio per l’Italia – precisa Rizzardini – è improbabile che una persona malata in modo conclamato arrivi qui».
«Oggi la malattia si sta diffondendo in villaggi poveri, dove le condizioni igenicosanitarie sono scarse e i cui abitanti viaggiano poco. È poco probabile che uno di loro arrivi in Italia. Lo è di più, allora, che un italiano andato in Africa torni qui infetto: anche in questo caso, però, il rischio di diffondere la malattia sarebbe minimo, applicando i giusti protocolli».
Protocolli che, in questo caso, vedono entrare in gioco l’aeronautica militare per rimpatriare il malato. Una volta giunto all’aeroporto militare, entra in gioco la task force del Sacco.
Sarà poi il coordinamento ministeriale a decidere se il paziente verrà ricoverato nel bunker del Sacco o trasferito allo Spallanzani di Roma