«Dal carcere dissi: amate la politica»

Giuseppe Adamoli e la lettera scritta sul tavolaccio di San Vittore dopo l’arresto ’92 per Tangentopoli. «All’apice del mio dramma testimoniai che, se c’è chi mangia, c’è anche chi ci mette passione e moralità»

Sono passati ventitré anni ma il tempo della politica corre più veloce del calendario. La politica, e negarlo sarebbe ingiusto tributo a ragione e razionalità, corre al passo della storia. E a suo modo la scrive. Nel bene e nel male, assieme alle sue date. Il 25 novembre 1992, la data in calce a una lettera che porta la firma di , un pezzo di storia l’ha fatta e l’ha lasciata a testimonianza di un’epoca travolgente come la scossa di un terremoto chiamato Tangentopoli.

«Ho amato la politica e dico a tutti, nell’apice del mio dramma personale, che la politica non è necessariamente sporca: si può viverla nella Dc e negli altri partiti come un’avventura positiva e bella quantunque, quando si sale nelle responsabilità e in questo contesto, rischiosa. Mi mancherà la politica» scriveva il 26 novembre in una drammatica missiva inviata al direttore della Prealpina l’allora ormai dimissionario capogruppo in consiglio regionale di una Democrazia Cristiana ferita dall’ondata

di arresti che in quell’anno colpirono come la peste tutto l’arco costituzionale. Una missiva inviata dal carcere di San Vittore dove l’ex sindaco di Vedano Olona (due mandati) – ed ex alto esponente del Pirellone, dove è rimasto ventidue anni, 12 nella Prima e dieci nella Seconda (?) Repubblica – era stato portato la notte prima, travolto da un mandato di arresto firmato dall’intero pool di Mani Pulite. E dal quale era uscito quattro giorni dopo.
Adamoli, che nel 2010, al termine del secondo mandato consecutivo in consiglio regionale, ha lasciato la politica delle istituzioni, ha ripubblicato ieri questa testimonianza di vita personale e politica sul profilo Facebook assieme a quella con la quale, su un tavolaccio di San Vittore, aveva vergato le sue dimissioni, recapitandole all’allora presidente . Un Giovenzana a sua volta dimissionario da sei o sette mese perché alla guida di una maggioranza ormai terremotata (sì, torniamo lì, il terremoto Tangentopoli) da avvisi di garanzia e manette tintinnanti che avevano sconquassato l’equilibrio delle urne.
Ma perché ripubblicare oggi quelle lettere? «Perché molti amici me lo hanno chiesto, soprattutto i giovani, che allora non avevano potuto leggerle». E anche perché, ci permettiamo d’ipotizzare noi che di Adamoli conosciamo l’acume e la capacità d’annusare il clima politico e di interpretarlo, in un momento di bassissimo gradimento dei partiti, delle istituzioni e della politica stessa che essi rappresentano, una lettera scritta con carta e penna su un tavolaccio di San Vittore, «con mano tremolante» e «un nodo in gola», può essere più forte e attuale d’un qualunque stridente cinguettio su Twitter.

«In effetti l’ho fatto – conferma alla cronista e sul post, tempestato di attestati di solidarietà e stima, oltre che di richieste di un ritorno nell’agone, magari come candidato della coalizione di centrosinistra per la corsa a Palazzo Estense – perché sono convinto, oggi come allora, che ci sono più politici di quanti crediamo e migliaia di amministratori che portano avanti il loro incarico con pulizia e impegno, con la volontà di assumersi dei rischi, di fare quel che possono per la loro comunità». «C’è una parte della politica che mangia, lo si vede. Ma c’è una riserva di moralità e di etica che ancora permane». Un patrimonio da trasmettere, non da disperdere: «Io lo dico spesso ai tanti ragazzi che vogliono far politica: “Di solito si entra da incendiari e si esce da pompieri”. Invece bisognerebbe essere sempre incendiari, fare anche battaglie di opposizione, non cedere mai al conformismo ma tentare in ogni circostanza di fare il proprio dovere». Passato e presente si mescolano. In fondo sono parte di questa provincia, della sua storia, della nostra. E sono le fondamenta del futuro: «Ora di quei giorni, quelli dell’arresto, parlo serenamente. La vicenda si concluse con una assoluzione piena: nel dicembre 1994, apice di Tangentopoli, fui assolto in primo grado con la formula più piena possibile. Senza le dimissioni sarei stato ancora consigliere regionale in carica con ciò che ne conseguiva».

Ma lui aveva lasciato, aveva dato le dimissioni: «Incredibilmente le prime e uniche non richieste dai pubblici ministeri in quell’epoca di arresti a ripetizione». Una scelta maturata la notte del 25 novembre 1992. Una notte che giungeva al termine di una giornata speciale. «Ero tornato contento dal consiglio regionale, perché avevo presentato il programma del nuovo esecutivo, che portava la mia firma. E, in quanto capogruppo in consiglio, seppure appartenente alla corrente morotea della Dc allora in minoranza, avevo illustrato il programma in una affollatissima conferenza stampa che avevo concluso dicendo “Che Dio ce la mandi buona”, perché la situazione era difficile. La maggioranza era risicata e il Pc diviso come una mela, tanto che sull’Unità scrisse di non seguire il progetto Adamoli».

Alle 21 ecco bussare alla porta. Seguirono le perquisizioni in casa, nell’ufficio varesino di viale Milano e subito dopo in quello da capogruppo sotto la Madonnina. Quindi il trasferimento in una caserma del capoluogo e infine, giunta la firma dell’ultimo dei componenti del pool , ndr), San Vittore. Sul tavolaccio Adamoli matura le dimissioni. E scrive: «È stata la mia una passione vera per la politica severa e pulita fin da ragazzo, quando lavoravo come operaio specializzato in un’officina meccanica».«Poi ho conosciuto, in tempi recentissimi, le coltellate. È come se questo mondo mi sia tutto cascato addosso. Ha senso tentare di schivare le macerie? La mia risposta è in questa povera lettera. Voi dovete continuare ad operare per la Regione a cui sono stato tanto affezionato».
Adamoli, cresciuto alla dura scuola del lavoro (sei fratelli, nato un mese dopo la morte del padre, a nove anni puliva la trippa del macellaio di Vedano, poi l’ingresso in fabbrica, gli studi serali dopo la fabbrica e la laurea in Sociologia a Trento), uscirà quattro giorni dopo da San Vittore, da ex consigliere. Lui, vicinissimo ad essere incaricato a guidare la Lombardia. Con un pensiero, coltivato prima durante e dopo quei giorni tremendi: «Avevo una paura che mi si leggeva in faccia. Ero sempre stato accompagnato dal grande rispetto della gente, ero sempre stato eletto con consensi altissimi e temevo di perdere quel rispetto, di essere considerato uno che aveva tradito, di non aver agito con il rigore che di solito si promette».

Varese dimostrò che in lui credeva ancora. La domenica stessa, alla messa di Vedano («dove andai a testa alta ma con le gambe che tremavano con mia moglie») e una settimana dopo, in corso Matteotti. Quando i varesini gli risparmiarono gli insulti rivolti in quei giorni ad altri volti noti. E tanti, anche avvocati, l’avvicinarono stringendogli la mano. Uno di quelli, lo scoprì otto anni dopo sui banchi del consiglio regionale dove era tornato, era. Allora suo collega, oggi sindaco di Varese. La politica scrive la storia, anche quella di un’amicizia.