Delitto Macchi, tocca al Ris. «Non finisca come Bossetti»

Guerra di perizie - Scende in campo il generale Lago. L’avvocato Pizzi: «Chiederemo di sequestrare il Sass Pinì»

– Delitto Macchi: scende in campo il generale Giampietro Lago. Il comandante del Ris di Parma ieri mattina in tribunale a Varese ha ricevuto l’incarico peritale dal gip Anna Giorgetti: affiancherà Cristina Cattaneo, l’anatomopatologa forense più celebre d’Italia, nell’analisi dei resti di Lidia a caccia di tracce di Dna appartenenti a terzi.

«Inizieremo immediatamente a lavorare – ha brevemente commentato Lago al termine dell’udienza, rispondendo a chi gli chiedeva se dopo quasi 30 anni è possibile che vi siano tracce utili ad identificare il killer di Lidia – in linea teorica è sempre possibile. A questo serve la scienza». Contestualmente Daniele Pizzi, legale della famiglia Macchi ha spiegato: «Oggi ratificheremo la richiesta di sequestro di parte dell’area circostante al luogo dove Lidia fu ritrovata. Vogliamo poter scavare la zona alla ricerca dell’arma

del delitto o di altri elementi utili ad accertare la verità».
Ferrei i difensori di Stefano Binda, 49 anni di Brebbia, ex compagno di liceo di Lidia, arrestato lo scorso 15 gennaio con l’accusa di aver assassinato la studentessa 29 anni fa: «Rigore assoluto nelle analisi e nella comparazione del Dna. Non vogliamo un secondo caso Yara Gambirasio». Il gip ha nominato anche Marina Carla Caligara, tossicologa, che dovrà cercare eventuali tracce di veleni, farmaci stordenti o stupefacenti nell’analisi dei resti di Lidia. Il quesito posto dal gip è chiarissimo: «Evidenziare se vi siano tracce di sostanze somministrate a Lidia (senza il suo consenso naturalmente) in grado da renderla inerme e incapace di reagire quella sera». Lidia Macchi fu uccisa il 5 gennaio 1987 con 29 coltellate dopo essere stata stuprata. All’epoca fu raccolto il Dna dell’omicida ricavato dal liquido seminale trovato sul corpo di Lidia. Nel 2000, 11 vetrini contenenti quel Dna furono distrutti per liberare l’ufficio corpi di reato dove erano stati depositati: fu un errore imperdonabile. Si salvò dalla distruzione un unico vetrino inviato a Pavia nel 1987 e contenente l’imene di Lidia. Fu inviato a Pavia perché all’epoca quello era il centro più specializzato in Lombardia per eseguire analisi alla ricerca di tracce biologiche. E poi fu, per fortuna, dimenticato. È su quel vetrino che lavorerà il generale Lago, con la genetista Elena Pilli (il cui laboratorio potrà eseguire analisi sul Dna Mitocondriale eventualmente ricavato dall’imene), per cercare tracce dell’assassino. Basta anche un solo spermatozoo per ricavare la quantità necessaria a eseguire una comparazione.

A Binda è già stato prelevato un campione di Dna. E ieri Sergio Martelli e Roberto Pasella, difensori di Binda, hanno presentato un’osservazione. Hanno chiesto che l’indagine proceda in modo preciso: prima dovranno essere individuate eventuali tracce biologiche riconducibili a terzi, quindi non appartenenti con certezza a Lidia e soltanto dopo, in una fase successiva, eseguire la comparazione con il Dna di Binda. La comparazione non deve in alcun modo essere contestuale, questo per eliminare il rischio di contaminazione delle prove che in seno al processo che vede Massimo Bossetti imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio ha scatenato un polverone.
Una serie di accuse da parte dei difensori di Bossetti sul fatto che le prove potessero essere state appunto contaminate. Sull’osservazione presentata dalla difesa Binda il gip si è riservato. A giorni, invece, sarà chiaro se l’area del Sass Pinì dove il corpo di Lidia fu ritrovato (il punto, nonostante la zona sia cambiata in 29 anni, è stato individuato attraverso triangolazioni toponomastiche) sarà sequestrata e se l’esercito inizierà a scavare anche lì come accaduto nel parco Mantegazza di Masnago lo scorso febbraio.