Gomorra, fenomeno in cattedra con Ciro

Ieri l’attore della serie che ha fatto il giro del mondo all’Insubria. E, in collegamento, Roberto Saviano. Lo scrittore: «Rimando al mittente l’accusa di diffamazione». D’Amore: «Fa paura l’Italia strisciante»

– Gomorra sale in cattedra a Varese e l’Insubria spiega la fiction di successo.
Accoglienza da star per uno dei protagonisti della pluripremiata serie che trae origine dal best seller di ., alias “Ciro l’immortale”,ieri, per un pomeriggio è stato “docente” per una giornata di approfondimento su un caso esemplare per la produzione seriale italiana con due anni di lavoro, 225 attori, centinaia di comparse e location, migliaia di collaboratori e venduto in 107 Paesi.

«Lo scopo – spiega , docente di Storia e media dell’Insubria – è stato quello di creare un momento di riflessione, serio e piacevole, sul fenomeno “Gomorra” con una duplice valenza dal punto di vista del racconto della realtà e della condivisione, positiva o negativa del grande pubblico, e la profonda convinzione che questo genere di tematiche debbano essere affrontate con studio e conoscenza, ma anche con il sorriso, come i video di “The Jackal”

non mancano di sottolineare».
C’è stato infatti il tempo di un collegamento via web con il gruppo di videomaker che ha creato la dissacrante parodia “Gli effetti di Gomorra sulla gente”, segno di quanto questo prodotto tv abbia creato un gergo popolare riconoscibile, non tanto per emulazione, quanto per intensità di performance. «A noi hanno complicato maledettamente la vita – ha precisato D’Amore – Sono bravissimi, ma da mesi non faccio altro che rispondere a domande come “Cirù, ci pienzi tu?” o “Stai senza pensieri”. Hanno sdrammatizzato, delle figure pesanti, ma hanno reso comici dei personaggi drammatici. Così noi dovremo fare un salto doppio per restituire a questi volti la temperatura drammatica nella seconda serie».
A monte di tutto c’è il lavoro di Saviano, che in un video girato a New York, in esclusiva per l’Insubria si è detto «stupito e contento che un ateneo abbia dedicato energie, spazio e tempo allo studio di “Gomorra, la serie”».
Ha analizzato poi il punto dolente di una rappresentazione della realtà che risulta scomoda. «In America e Sudamerica, non sembra un lavoro italiano. Sono abituati a una produzione cinematografica con “topoi”, prodotti e riprodotti, per interpretare la complessità italiana: il prete, il magistrato buono, poliziotto corrotto o coraggioso, il cattivo che avrebbe potuto essere una persona per bene». Non è quindi una fotografia della vita di Napoli, dell’Italia o dell’Europa. «È la crittografia della fenomenologia del potere attraverso la vicenda di una famiglia camorrista. Quando si sta per cadere nell’empatia, immediatamente il racconto rovina su un gesto di infinita violenza o crudeltà terribile. Non abbiamo voluto costruire figure eroiche, ma bisogna confrontarsi con il male».

Parlando a degli studenti ha precisato: «Rivendico il diritto di poter fissare la ferita e rimando al mittente l’orrenda accusa di diffamare Napoli». I panni sporchi non si lavano in famiglia, altrimenti, «significa spingere il Paese al più spinto oscurantismo».
«Secondo me una serie non trasmette messaggi – ha detto Marco D’amore, che sarà presente anche nella seconda serie – Per me questa ha un primato narrativo, cioè si prefigge di raccontare la criminalità attraverso gli occhi dei criminali, senza edulcorare o giustapporre alla realtà un eroe che salva il mondo. Una serie deve stimolare riflessioni, emozionare e mi auguro che restituisca godimento allo spettatore e che apra dei tavoli di discussione».
Marco ha poi raccontato la puntata per lui più violenta. «È il racconto di di Milano, in cui si vede dove vanno e da chi sono gestiti i soldi di questa gente che ammazza e spara. A me fa molto più paura quell’Italia perchè è invisibile ed è strisciante».