Il decalogo della resistenza quotidiana

L’editoriale di Max Lodi

Esiste il decalogo d’una nuova Resistenza, aggiornata al terzo Millennio, al nostro ring quotidiano, a travagli, affanni, traversie, deficit e altro della contemporaneità? Forse sì. Proviamo a indicarlo, giocando con le lettere che compongono la storica parola. Resistenza, appunto.

. Erre come rozzezza. E’ talvolta l’elemento caratterizzante della vita privata. Mancanza d’attenzione, cura, sensibilità verso gli altri e la società in genere. Idem nella vita pubblica: si traduce nel fraintendimento delle priorità comuni, nell’inadeguatezza a governare, nel mancato ascolto delle istanze popolari.

. E come eccessi. Se ne registra d’ogni tipo e ovunque. La sobrietà? Un’anticaglia insopportabile. La moderazione? Un conservatorismo da impolverare in soffitta. La delicatezza d’un sentimento? Una romanticheria ridicola, sorpassata, e comunque inesprimibile attraverso i mezzi di comunicazione à la page: volete mettere la brevità d’un lazzo “social” con la tiritera d’un tradizionale meditare?

. S come superficialità. Ah, la noia dell’approfondimento. Ah, la barba di capire. Ah, il fastidio del ragionare. Meglio tirar via, scivolare sull’acqua, dedicarsi al surf del battutismo, dell’uscita ad effetto, infine e se si riesce allo slogan che colpisce l’immagine. La sostanza rimane sullo sfondo, soppiantata dalla forma. Gridare e inveire fan premio sul comprendere e analizzare.

. I come indifferenza. E’ il virus epocale, esemplificato dalle tragedie ormai abituali dell’immigrazione. Muoiono migliaia di persone, e la notizia cade nel nulla. Quando non vi cade, viene appresa con disappunto. I profughi sono tutti clandestini, i clandestini di colore delinquenti, i delinquenti forestieri la zavorra del nostro virtuoso Paese. Via di qui, a casa, sciò, raus. Ciascuno muoia dov’è nato, e se non vuol morire, proviamoci con qualche drone da sparare sugli sciagurati barconi.

. S bis come servilismo. Entra il primo candidato. «Lei sa che questo è un semplice test per verificare se è adatto all’impiego per cui ha fatto domanda?». «Certo!». «Quanto fa due più due?». «Quattro!». Entra il secondo candidato: «Quanto fa due più due?». «Qualunque risultato il capo abbia deciso per la ditta». «Bene, lei è assunto»: E’ una barzelletta araba, il suo contenuto non è occidentalizzabile: è già stato e felicemente occidentalizzato. Italianizzato.

. T come torti. Ne circolano troppi, un’insostenibile quantità. Però non sempre troviamo la forza per denunziarli, combatterli, eliminarli. Subentrano lo scetticismo morale, la rassegnazione quasi fisiologica, una tolleranza dovuta al fatto che se ne vedono di così numerosi, da spegnere il residuale fuoco della ribellione.

. E come esilio. L’esilio non è solo quando si lascia una patria. E’ anche quando si abbandona la speranza nel futuro, un trend in aumento. Il motivo? Ci si dedica troppo alle piccole cose, e si è incapaci delle grandi. Viene preferita la banalità, un’esistenza priva di fremiti e di tensioni, non tesa a mete alte. I poeti la chiamano perdita di vocazione all’infinito.

. N come nichilismo. Ovvero: annullamento della nobiltà d’animo. Dell’essere galantuomini. Di che cos’abbiamo nostalgia? Degl’illuminati che sono esigenti con se stessi, al contrario dei volgari che sono pretenziosi con gli altri. Rigore personale, generosità, rispetto, libertà, dignità umana: questo incarnano i galantuomini. Faticheremmo a indicare modelli segnati da tali caratteristiche.

. Z come zizzania. Se ne semina tanta perché manca il senso della dialettica civile. L’onorare le opinioni avverse, o almeno il non demonizzarle, pare un esercizio inattuabile. Eppure si può essere fieri senz’aggressività, di parte ma non nemici, battaglieri e insieme leali. Accade di rado. Un peccato: bisognerebbe saper ascoltare un’opinione saggia, indipendentemente da chi la esprime.

. A come apparenza. Ci aveva messo già in guardia la Bibbia (“L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore”), ma è un insegnamento regolarmente disatteso. Il sembrare sèguita ad essere preferito all’essere, salvo ricordarsi dell’errore quando ci si trova in gravi ambasce.

Allora, solo allora, ci si accorge dello sbaglio: e talvolta non si è più nelle condizioni di rimediare. Di resistervi.