Insulti virtuali e giustizia reale

L’Editoriale della nostra Simona Carnaghi

Insulti nei confronti di un diciannovenne morto. Gioia per questa morte. Insulti anche a chi si è permesso di dire che, se la morte del ragazzo in questione era dovuta certamente a un’imprudenza, insulti e gioia erano abominevoli.
Che un utente di Facebook si sia sentito oltraggiato, di più, che abbia ravvisato un reato in una simile condotta è una luce radiosa. Che la Digos della questura di Varese abbia deciso che sì, in quel comportamento,

un reato c’era informando l’autorità giudiziaria è Stato. E’ un segnale forte che dice: le cose possono cambiare. Qualcuno in merito alla vicenda ha scritto che “il web è democrazia assoluta, si dice quel che si vuole”, citiamo testualmente. Quest’affermazione sintetizza perfettamente la percezione errata della rete che quanto meno in Italia (non sappiamo altrove) si ha. Si guarda alla rete come a un luogo rarefatto, disgiunto dalla realtà. Un posto non vero, un non posto.
Un sogno, un gioco di ruolo virtuale dove, giunti all’ultimo livello si vince o si perde senza alcuna conseguenza. L’azione, meritoria della Digos, riporta tutti alla concretezza. La rete è parte integrante della realtà. Persone vere, fatti veri, dolori autentici. Il web è parte delle vita vera delle persone, non è un gioco. La democrazia, tanto inneggiata dai commentatori di professione (anonimi perché si sa un gioco non lo giochi chiamandoti Mario Rossi, ti inventi un nome di battaglia), anzi la democrazia assoluta è un patto sociale. E come tale soggiace a delle regole. Si chiamano leggi. Vietano e puniscono comportamenti che, questa società democratica, la danneggiano. C’è una ragione se le sentenze nei tribunali si pronunciano nel nome del popolo italiano. Ora in Italia c’è un articolo del codice penale (il 724) che vieta bestemmie, invettive o parole oltraggiose nei confronti dei defunti. La Digos quell’articolo lo conosce perché nei suoi intenti c’è anche quello di mantenerla questa democrazia. E lì ha ravvisato, annidato come un serpente velenoso, l’odioso reato commesso da chi ha chiamato Edoardo Baccin, il writer di Somma travolto da un treno, in modi assolutamente irripetibili. Godendo del suo decesso. Lo Stato è sbarcato sul web. Lo Stato ha detto ai navigatori, commentatori, insultatori di professione che no, non è possibile dire tutto ciò che si vuole. Perché persino sul web, in un luogo appartato raggiungibile giusto da qualche miliardo di persone, insultare, offendere, accusare falsamente, dileggiare un morto, no, proprio non si può. Di solito le liti finiscono in tribunale perché una delle due parti in causa denuncia l’altra. Si dimentica che reati quali diffamazione, calunnia, ma anche minaccia, sono estese alla rete. Il numero di cause in aumento dimostra che tanti, anzi tantissimi, forse a causa di una scarsa cultura, questo postulato non l’hanno compreso. Edoardo Baccin ci porta a fare un passo in più. Io posso denunciare anche se non sono parte in causa. Io denuncio perché da utente voglio davvero uno spazio libero dove esprimermi. Senza insulti, volgarità, minacce e violenza. Voglio uno spazio legale. Uno spazio che abbia un senso. Dove ci si possa sentire tutelati. Dove nessuna debba avere paura a dire davvero quel che pensa temendo il linciaggio. Perché così non è “democrazia assoluta”. Così il web è una dittatura. Si è in balia del più becero, perché quello che ha cervello e cuore si ritrae a fronte di tanto odio vomitato senza alcuna ragione.