Non è roba da vecchi Il dialetto ha l’iPhone

L’editoriale del nostro Mario Chiodetti

Il dialetto significava casa, focolare, lavoro e fatica, ma anche ilarità e spensieratezza, ironia e linguaggio del corpo che diventa parola. Il dialetto nasceva dall’osservazione di movimenti e abitudini, della natura, con il trascorrere delle stagioni, di vizi e virtù degli uomini, quasi sempre trasformati in proverbi e mai fallaci. Il dialetto è semplice e immediato, va diritto al cuore, ferisce ma sa medicare, fa sorridere e sperare, rende espliciti i moti dell’anima e segna in un ritmo antico le opere da svolgere nei campi,

i giochi dei bambini e le stranezze degli adulti, magari alle carte o all’osteria. In casa lo parlavano i nonni e il papà, bambino ascoltavo un miscuglio di “casbenatt” e “laghée” e ridevo quando sentivo i soprannomi delle amiche di casa, la “penell” per via della corta coda di cavallo, la “filizina” che cuciva sempre, la “tetton” per via di una taglia extralarge di reggipetto, la “Maria bursa” per la gigantesca sporta che teneva sempre sottobraccio, la “palancheta” dalla mania di contare in continuazione monetine.Ogni tanto la Zianna ci leggeva qualche sonetto (di quelli “puliti”) di Speri Della Chiesa, ma sapevo che in casa giravano alcune registrazioni del Larghi, un collega di mamma, fine dicitore bosino, con quelli “sporchi”, allora definiti licenziosi, che ancora adesso ricordo a memoria e recito dentro di me nei momenti di tristezza. “Novell, panzanegh e bosinad” alzano il morale e fanno ripensare alla Varese semplice di allora, i campi a ridosso del centro, i carretti a mano con la verdura che arrivava da Casbeno, la schiettezza contadina e la vita infinitamente più semplice e vera. Ogni categoria aveva il suo gergo, il calzolaio e il fabbro, il pescatore e il tipografo, parole che non si mescolavano ed erano quasi sconosciute gli uni agli altri, ma parte di un ricchissimo e straordinario vocabolario che pareva animarsi e donare immagini figurate tanto i termini erano precisi e coloriti. Manzoni preferì risciacquare il suo lessico in acque toscane per togliere i lombardismi dai “Promessi sposi”, ma in casa sua parlò sempre in milanese, in dialetto conversava l’aristocrazia ma anche lo scrittore, il musicista e il pittore, e “le parole tra noi leggere” erano spesso quelle dette in vernacolo: il complimento a un bimbo o a una ragazza, l’invito a un amico, l’incoraggiamento a chi soffre. Oggi parlare dialetto o tentare di farlo è visto come un segno disonorevole, la manifestazione verbale di persone con scarsa cultura, o si identifica il bosino con la Lega e i consueti luoghi comuni del “lumbard” zotico e volgarotto. Mentre, al contrario, occorrerebbe ripartire da zero e insegnare prima di tutto il rispetto per quella che è una lingua a tutti gli effetti e rappresenta ciò che siamo stati. Colpisce allora il sapere come ogni anno la Famiglia Bosina riesca ancora a indire il concorso per il miglior verseggiatore vernacolo della città (con qualche licenza nei dintorni) e catalizzi intorno a sé il Cenacolo dei Poeti e il Gruppo Folkloristico Bosino nato con la nostra provincia nel ’27 per merito di Giuseppe Talamoni, in una difesa anacronistica ma commovente del lessico dell’altrieri. I giovani vedono il dialetto come un arnese da vecchi, ma quasi nessuno fa capire loro, nelle scuole, che la lingua dei bisnonni è ricchissima e arguta, piena di storie e rimandi per esempio al francese o allo spagnolo, chiave fondamentale per capire gli antichi mestieri e il modo di vivere di un tempo. La soddisfazione più grande sarebbe quella di incoronare presto un poeta bosino ventenne, capace di rendere in versi, anziché con whatsapp e sms, una ritrovata umanità, unendo passato e presente e magari futuro, perché il dialetto è una lingua duttile, capace di plasmare ogni più recondito pensiero e moto del cuore.