«Un onore essere tra i finalisti del Premio Chiara»

A tu per tu con Antonio Manzini, dalla cui penna è nato l’amatissimo vicequestore Rocco Schiavone

È in testa alle classifiche di vendita davanti nientepopodimeno che al monumento Camilleri, che gli fu maestro all’Accademia d’arte drammatica, e il suo vicequestore Rocco Schiavone, antipatico e scontroso, è tra gli eroi di carta più amati dai lettori in ogni luogo della Penisola. Ora Antonio Manzini, scrittore e sceneggiatore, un passato di attore in cinema e fiction televisive, romano, 52 anni tra quattro giorni, con la sua raccolta di racconti “Cinque indagini romane per Rocco Schiavone” è nella terna dei finalisti del Premio Chiara, assieme a Giorgio Pressburger e Valeria Parrella.

Non li amo, mi lasciano freddo, ma occorre un distinguo. Il “Chiara” è bellissimo e mi fa onore essere tra i finalisti, non me lo aspettavo di certo.

Lo lessi appena finito il liceo, poi non l’ho più fatto. Apprezzai la splendida raccolta di racconti “L’uovo al cianuro”, poi “I giovedì della signora Giulia”, ma il ricordo più vivo è il suo “Casanova”. Mi interessai alla figura dell’avventuriero grazie al film di Fellini, poi nella ricerca scoprii il libro di Chiara che mi piacque molto.

Scrivere racconti è difficilissimo, soprattutto quelli di genere come il giallo. Mio padre è pittore, quindi mi sento di paragonare il racconto a un disegno a china o a un carboncino, il romanzo a un quadro a olio, pieno di sfumature e di colori. Il racconto è più faticoso anche per il lettore, richiede grande attenzione perché in poco spazio devi concentrare una buona storia e ogni “step” che il genere richiede. È come per le poesie, dopo averne lette tre devi riposare e poi riprendere; i racconti di Calvino, di Scott Fitzgerald o di Cecov sono un’esplosione che lascia senza fiato. Scriverli mi piace, è quasi una sfida con me stesso.

Ho seguito l’elezione del nuovo sindaco, la città ha grandi potenzialità e mi meraviglio che una borghesia così ricca e importante sia sorda alle esigenze culturali, perché a Varese ho trovato solo persone attente e curiose. La città è molto bella, anche architettonicamente, ha una meravigliosa natura intorno, deve ritornare a essere viva.

Camilleri non ha eredi, è unico come Simenon. Nessuno in Italia ha saputo comporre un’opera così vasta e variegata. Essere menzionato in un suo libro mi fa enorme piacere, lo ricordo mio insegnante all’accademia e poi amico.

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In Italia non abbiamo mai avuto fiducia nello Stato. Siamo un Paese troppo giovane, in Inghilterra nel 1600 Cromwell faceva già la rivoluzione, non parliamo della Francia. Qui siamo fermi ai Comuni, la nostra non è una democrazia vera e poi, guardandoci indietro, abbiamo avuto una delle peggiori monarchie d’Europa, poi il Ventennio fascista, quindi anni di monocolori Dc e vent’anni di Berlusconi. È un miracolo se siamo ancora vivi.

Perché vi si specchiano, ognuno di noi ha un lato oscuro e pesante, che però cerchiamo di occultare. Lui non lo fa, e per questo piace, non dà delusioni perché è così come appare.

Soltanto la “misurazione” in gradi delle rotture di scatole. Per me il massimo grado è il dover fare le cose per forza.

Che sarebbe un madornale errore toglierlo a Torino, città civilissima e con grandi tradizioni editoriali di libertà. Portarlo a Milano significa consegnarlo a un’editoria tesa soltanto al profitto e non alla qualità, come dimostra il colosso “Mondazzoli”. Spero che Sellerio rimanga fedele a Torino.

I Monti Cimini nel Viterbese, dove vivo. Ovvero una splendida faggeta millenaria. Metaforicamente vedo tanta, troppa paura. Del futuro e del decadimento nei rapporti umani. La mia generazione ha fatto danni incalcolabili, l’umanità si approssima alla fine se non si distoglie dal guadagno, idea a un tempo fissa e devastante. Se uccideremo il Dio del profitto forse potremo salvarci.