Viaggio nel mondo ribelle dei writer: «È l’arte di vivere»

Dopo la tragedia di Arona, il varesino Sten Graffiti svela l’universo di chi dipinge sui muri e sui treni: «La strada insegna. Ma ora solo murales legali»

«L’arte non insegna nulla tranne il senso della vita. L’ho tatuato sulla pancia», ci dice subito , questo il nome d’arte del writer varesino, quando gli chiediamo di spiegarci la sua arte. Un fenomeno culturale, quello dei writer, tornato a dividere l’opinione pubblica dopo la morte di , il giovane graffitaro di Somma Lombardo travolto e ucciso da un treno ad Arona.

«Ho iniziato – racconta lui – guardando i “pezzi” per strada, in quel periodo mi stavo appassionando all’Hip Hop, e da lì ho cominciato a spruzzare sui muri pure io. Oh, non è che fossi bravo, intendiamoci: ho dovuto studiare tanto per diventarlo. Ricordo che compravo le riviste e giravo la città a piedi per vedere i murales e capire come farli. Avrò avuto 14 anni, penso; manco mezzo soldo bucato in tasca, altro che internet: ho imparato tutto per strada».

Già, i murales come arte per uscire dalla strada, per svoltare la propria vita.
«Oggi disegno sui muri ma solo in maniera legale, faccio il tatuatore, e dipingo. Contamino tutto: l’arte è arte, metto i graffiti nei tattoo, i tattoo nei dipinti, i dipinti sui muri. Ho trovato uno stile mio e sono finito a pitturare in un video di Dj Jad (ex degli Articolo 31, ndr.), per cui ho fatto anche la copertina di un mixtape; mi hanno pubblicato in un libro a San Francisco, e tra poco sbarcherò su Save My Ink, un importante sito di Los Angeles». Ok, ma cosa c’è dietro a questo mondo sotterraneo, fatto di bombolette, codici, parole e disegni? Cosa vuol dire profondamente disegnare su un muro o su un treno? Forse c’è dietro solo la voglia di esprimersi in un mondo che ci vuole tutti uniformati. «Penso che in primis – continua Sten – ci sia la voglia di auto affermarsi: insomma riempire la città con il tuo nome è “violenza verbale”, è qualcosa che fai per nutrire il tuo ego, per dire a tutti “io ci sono”. Ma questa è la mia idea personale, non è detto che valga per gli altri. Io ho smesso di fare scritte sui muri, perché per quanto siano studiate, colorate, elaborate, mi sanno poco di artistico, preferisco disegnare: insomma, credo che la gente preferisca vedere un’immagine a una scritta. Le scritte fanno incazzare».

Se da un lato c’è la voglia di farsi spazio, dall’altro c’è la voglia di misurarsi con gli altri e con se stessi. «Diciamo che le strade sono un’infinita galleria d’arte, potenzialmente. Il concetto è questo: più “pezzi” faccio in giro più mi faccio notare, più il mio marchio diventa famoso e conosciuto. Poi esiste la voglia di sfidare i propri limiti: come fare murales sempre più grandi, sempre più complicati, in posti sempre più difficili da raggiungere – anche per far dire agli altri writer: “ma come diavolo ha fatto?”. C’è competizione, è un po’ una gara a chi ce l’ha più lungo, non so se mi spiego… Io personalmente ho abbandonato questa strada, un po’ perché non era la mia, un po’ perché preferisco fare le cose con calma; e soprattutto preferisco spruzzare su un muro mentre la gente mi guarda, mi osserva, e vede la mia opera che prende forma. Insomma, sono passato dal farlo abusivamente, a farlo alla luce del sole». L’arte del writer è una delle quattro discipline fondamentali della cultura Hip Hop. Cultura che ha origini dall’altra parte dell’oceano, ma che oggi è una realtà globale. «Quel modo di vedere il mondo mi ha insegnato la dedizione al lavoro e lo studio delle origini per evolvere il proprio stile. Mi ha insegnato l’arte di stare al mondo».