Varese saluta Guccini con una standing ovation

VARESE Mancava soltanto un bel fuoco di legna nel camino, all’imbrunire nella gremitissima sala Napoleonica di ville Ponti, e poi il quadro del Guccini poeta del racconto si sarebbe completato a meraviglia. Francesco arriva a ricevere l’abbraccio di chi gli vuole bene in tenuta da casa, cardigan blu aperto su camicia a quadretti avorio e bordeaux e jeans, il sorriso e quel filo di imbarazzo che anche uno come lui, abituato alle alte luci del palcoscenico, prova nel sentirsi messo a nudo.

Varese l’omaggia con il premio “Le parole della musica”, creato dal Festival del Racconto in collaborazione con il “Tenco” e la Ghost Records, e tutti in sala si alzano in piedi al suo ingresso mentre l’inconfondibile voce canta “Lontano” di Luigi Tenco. Il tributo a un uomo che ha saputo mantenere il suo io inalterato nel tempo, conservare le tradizioni di una vita semplice, in passato anche dura, la genuinità di una stretta di mano e la delicatezza di un ricordo lontano. Il clima è familiare, non ci sono discorso di politici o inutili e finte cerimonie, si parla tra amici, tra compagni di strada di lunga data.

A chiacchierare con lui ci sono Vittorio Colombo, responsabile dell’edizione varesina della “Provincia” e giurato del “Tenco” e i sodali Enrico De Angelis e Antonio Silva, come dire l’anima e il cuore del premio stesso, la memoria storica e il domani. Il Premo Chiara aggiunge una gemma alla sua collana e proietta Varese al di fuori dalle querelle di bottega, merito di un lavoro corale e del coinvolgimento di altre realtà operanti in sintonia.

Un dilettante, si definisce Guccini nell’intervista prima della premiazione, ma anche un po’ professionista, insomma uno che con le parole ci campa, prima con lo spirito e poi con il corpo, sempre standosene un passo indietro, come un bambino o un gatto che scruta ciò che lo circonda per catturarlo un attimo dopo.

Incalzato da Vittorio Colombo, Francesco racconta subito il suo primo concerto a Varese, quando gli rubarono il borsello con dentro 50 mila lire: «Il giorno dopo sarei voluto andare in Svizzera a comprare le sigarette, ma niente da fare». Piero Chiara lo ha letto diverse volte, già negli anni ’70 e poi nel recente “Meridiano” Mondadori: «Mi piacque subito, mi riconobbi nei giocatori di carte del Metropole, con la differenza che noi nelle osterie di Bologna non ci giocavamo mai nemmeno un caffè, lo facevamo solo per il gusto di divertirci. I giocatori veri stavano a Porretta Terme. Ricordo un tale che si perse il negozio e al mattino, uscito dal locale incontrò moglie e figlia che stavano andando ad aprirlo: lasciate perdere, il negozio non ce l’ho più».

Storie d’altri tempi, filtrate dalla nostalgia per una vita più semplice, per una natura più pulita, per l’infanzia dai tempi lunghi, dilatati. Francesco fanciullo nel mulino dei nonni a Pavana, il rito dell’uccisione del maiale, con i salumi che duravano tutto l’anno e quella salsiccia sott’olio dal sapore mai più ritrovato. «D’inverno ci si scaldava con i “coltroni”, copertone buttate sul letto, con il “prete” contenente la brace della stufa e addirittura con i grossi bossoli d’ottone

lasciati dai carri armati americani e passati “in forno”. Il giovedì si faceva il pane che durava tutta la settimana e quando lo si impastava il locale era riscaldato e noi potevamo fare il bagno». De Angelis ripercorre la vita di Guccini attraverso le pagine della recente autobiografia, con il brusco passaggio dalla montagna alla pianura e il trasferimento della famiglia a Modena. «Fu una grande tragedia in quel tardo ’45, quando a bordo di un carro bestiame arrivammo in una città sconosciuta, dove mi accolse una zia. Io non volevo partire, mi aggrappai a un alberello sperando mi lasciassero lì. Ricordo la stufa Becchi e papà che ci cuoceva sopra un’aringa, gli scarponcini portati con sotto le “bollette”, i chiodi, il possesso del territorio ottenuto facendo a pugni con gli altri bambini, la “esse” emiliana che presto presi e mio padre detestava».

Antonio Silva chiede delle letture di oggi: «Ho appena finito “Strage”, l’ultimo libro di Loriano Macchiavelli sulla strage di Bologna del 2 agosto, poi mi sono ricomprato “Il buon soldato Sc’vèik” del ceco Hasek, ma costa un bel po’». Quelle di ieri, Meneghello e Gadda in testa, l’avevano portato quasi a inventarsi un linguaggio, a prendere spunti dal pavanese per scrivere i suoi tre romanzi.

L’amarcord – qui è il caso di dirlo – prosegue con le tarde estati trascorse dalla nonna materna a Carpi, con tanto lambrusco e fumetti da divorare, la casa grande con annesso laboratorio sartoriale e le “scepùi”, le giovani lavoranti, che imparavano il taglio e il cucito, i pregiudizi dei cittadini verso i “montanari”. Viene proiettata la vignetta che Sergio Staino ha disegnato apposta per l’occasione, con Bobo alla guida della leggendaria locomotiva: “Guccini non temere, io corro al mio dovere”. Si parla di Francesco traduttore di Brel, Cohen, Dylan e del catalano Joan Manuel Serrat, di cui il maestro ha reso una versione modenese della “Tieta” diventata “Ziatta”. Poi le storiche sfide con Roberto Benigni con le ottave degli improvvisatori toscani, la rima finale volutamente beffarda per mettere in difficoltà l’avversario. Alla fine Francesco si alza in piedi e ritira la targa, con un corale grazie «Per aver raccontato come nessuno, nelle sue canzoni, la grazia e il tedio morte del vivere in provincia». C’è il tempo per una battuta finale, prima della “Locomotiva”: «Da giovane promessa sono diventato un vecchio rincoglionito che premiano tutti».
Mario Chiodetti

v.colombo

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