Effetto tsunami? Share for business. La nuova economia ha rotto gli schemi

Sharing economy - In principio furono le auto, poi abiti, mestieri e affitti. Ecco come ci ha cambiato la vita

In principio furono car e bike sharing e poi tutti il resto: cibo, abbigliamento, affitti, lezioni private, lavoretti di ogni genere e persino accudimento di animali domestici.
La sharing economy, detta anche economia collaborativa non conosce limiti, spinta dalla forza della rete, delle piattaforme e delle app. Uber o Airbnb a parte, solo per citare i nomi più evocativi per tutti, online si può trovare il modo di affittare vestiti, prenotare cene a domicilio o prendere lezioni: il tutto contattando direttamente un privato che mette a disposizione beni o servizi.

Dal punto di vista economico si tratta di un modello di business che rompe gli schemi e trasforma il consumatore in un fornitore di servizi: chiunque può mettere a disposizione la propria auto, il proprio appartamento trasformandosi da consumatore a produttore.
Nel suo Dna c’è anche la promozione di forme di consumo consapevole e a basso costo che si basano sulla collaborazione e, a volte, sul riuso. Tutto ok? Non proprio: perché ora la partita si sta spostando sulla necessità di fissare dei paletti normativi rispetto a un fenomeno nato dal basso spesso anche come risposta alla crisi. Dall’idea iniziale di condivisione e scambio di beni o servizi si è generato un business dove mancano regole ad hoc.

Ma quali sono i numeri? Secondo una ricerca del sito Collaboriamo.org nel 2015 in Italia erano attive 118 piattaforme di sharing economy con una crescita del 21,6% rispetto all’anno precedente. Il settore più attivo è risultato quello dei trasporti che assorbe il 19% delle piattaforme attive in Italia, seguito dal turismo (15%) e dallo scambio di beni di consumo (15%).
Il dato sugli utenti dice invece che il 51% delle piattaforme non supera i 5mila iscritti e,

in fatto di preferenze, gli italiani prediligono ancora il car sharing che è utilizzato da due milioni di persone.
Si tratta di utenti che, soprattutto nelle grandi città, preferiscono l’auto on demand piuttosto che la proprietà di un mezzo per lo più parcheggiato in strada e che si porta dietro costi fissi impossibili da ammortizzare con un uso troppo sporadico. Se poi si guarda alla percentuale di Pil mosso dall’economia collaborativa uno studio del Crédit Suisse parla di un valore tra lo 0,25% e l’1 per cento, percentuali che non paiono ancora così rilevanti, anche se indubbiamente si tratta di stime.

In Italia comunque la scossa prodotta dalla sharing economy ha generato ben più di un dibattito, legato più che altro alla tassazione e alla difesa degli operatori del settore, nel campo del turismo e dei trasporti.
Si è così arrivati, il 2 marzo scorso, alla presentazione alla Camera di una proposta di legge, ribattezzata Sharing Economy Act. Tra i punti che la normativa si propone di disciplinare vi è quello della tassazione degli introiti generati dalle piattaforme per i quali si propone una tassazione con una aliquota del 10 per cento fino a un massimo di diecimila euro annui.

Al di sopra della soglia gli introiti potranno essere considerati redditi veri e propri e dunque – fiscalmente – andranno sommati agli altri percepiti.
Intanto proprio in questi giorni la Commissione europea è scesa in campo a difesa della cosiddetta economia circolare chiedendo ai diversi Paesi di evitare atteggiamenti troppo rigidi che impediscano lo sviluppo di nuove forme sul mercato. La partita dunque è ancora decisamente aperta.