«Il vero male è il falso made in Italy»

Il Made in Italy? L’hanno fatto gli imprenditori. «Sì alle regole, ma dobbiamo andare oltre i brand e valorizzare le filiere».

Nel giorno in cui il Parlamento europeo di Strasburgo dice finalmente “sì” all’obbligo di indicazione del marchio di origine, l’università Cattaneo di Castellanza ragiona sul futuro del Made in Italy con un workshop dedicato alla competizione e all’evoluzione di questo asset della nostra economia.

I veri protagonisti sono gli imprenditori, con le loro storie di successo che rappresentano il vero punto di partenza per guardare al futuro.

«Il Made in Italy è un successo costruito dalle imprese e solo dalle imprese» ricorda il professor Alessandro Sinatra, ordinario di economia della Liuc. Tanto che non c’è ancora una vera e propria codificazione di che cosa è Made in Italy: Sinatra ci prova a definirne i contorni, introducendo le «tre I», ovvero imprenditorialità, internazionalizzazione e innovazione.

Per dire la sua Giordano Torresi, stilista marchigiano di scarpe e titolare di uno dei più giovani brand di successo del Made in Italy, prova a richiamare un concetto di Guido Barilla: «Da bambino giocavo in fabbrica».

Forse questo legame tra famiglia e produzione è un tratto tipico, oppure occorre introdurre, con il giornalista del Sole 24 Ore Franco Vergnano, «il paradosso del calabrone, che vola contro tutti i principi aerodinamici, che è quel che spesso si dice del nostro export».

E alla fine si scopre che anche una certa «sregolatezza» è un carattere distintivo del Made in Italy: il suo essere un po’ questo e un po’ quello. Perché è una cultura, è un modo di produrre, ma in fondo è il frutto di un territorio da sempre frammentato.

Eppure oggi la difesa del “genio” italico ha bisogno di regole, perché «il falsamente Made in Italy», come lo definisce Antonio Civita, Ceo della “micro-multinazionale” del food Panino Giusto, «è un problema da risolvere».

Così, per il professor Sinatra, «la normativa europea è un tassello di un mosaico, importante, che contribuisce a dare delle regole. Ma in un sistema complesso e composito, per certi versi indefinibile, qual è il Made in Italy, non c’è una panacea». Eppure c’è bisogno, secondo Sinatra, di «un’uniformità di comportamenti e di regole, per evitare comportamenti opportunistici e dare certezze al consumatore finale che a volte è disorientato. Non servono divieti, ma un’ulteriore garanzia».

La presidente dei giovani di Sistema Moda Italia, Alessandra Guffanti, ammette: «Abbiamo bisogno di paletti normativi e il voto di ieri a Strasburgo è un primo passaggio formale importante per tutelare il “made in” europeo. Ma il passo successivo è la valorizzazione di questo nostro asset».

Non basta invocare una “protezione”, bisogna essere pronti a raccogliere le sfide. Alessandra Guffanti indica la strada: «Dobbiamo andare oltre il brand e tornare al valore della filiera. Il prodotto deve diventare un’icona e deve raccontare le nostre storie di famiglia e di filiera».

Fino ad ora non si è scommesso a sufficienza su questo aspetto, secondo la numero uno dei giovani imprenditori del tessile-abbigliamento-moda: «Siamo unici perché lavoriamo dal filato al brand e dobbiamo valorizzarlo. Nelle etichette dei capi delle “griffe” dovranno esserci anche i nomi delle nostre filature e tessiture».

Il territorio è un asset «da comunicare», secondo Alessandro Paciello di Aida Ogilvy. «È un luogo di qualità, la rete di relazione e di distretto è la forza in più che hanno le nostre aziende».

Così Alessandra Guffanti propone una sorta di «politica di turismo industriale», anche in vista di Expo 2015. «Senza i territori e le filiere i nostri prodotti non sono niente. È a partire da qui che dobbiamo affrontare il mondo e raccontarci al mondo».

Quello che forse fino ad ora è mancato è una narrazione del Made in Italy, troppo centrato sui brand e troppo poco su tutto quel che ci sta dietro. Nell’era in cui, per Giovanni Iozzia di EconomyUp, «si passa dal “made in” al “make in”», è ora di colmare questo gap comunicativo.

Come? Innanzitutto «innovando – suggerisce Pietro Paganini, castellanzese e fondatore di Competere – intercettando le tendenze del momento, dalle stampanti 3D al “big data”. Ma anche tutelandosi con i brevetti».

Perché, la chiosa di Franco Pasquali (Symbola), «dobbiamo sfatare i luoghi comuni del Made in Italy. In una realtà come questa di Castellanza non potrebbe mai nascere, stando a quel che il mondo pensa del Made in Italy. Invece è proprio qui che ci sono le condizioni per rompere i luoghi comuni».

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