Il diritto alla patente e il diritto alla vita

L’editoriale di Laura Campiglio

Per chi considera la parità di genere un fondamento del vivere civile, il coro entusiastico con cui tanta parte di Occidente ha accolto la notizia che in Arabia Saudita le donne potranno addirittura guidare, suona quanto meno stonato. Come si può considerare una svolta epocale la concessione di quello che dovrebbe essere un diritto assodato e perfino banale? Come può l’apprezzamento per la presunta spinta riformatrice del sovrano offuscare lo sgomento per un Paese in cui le donne (che,

per dire, votano dal 2015) hanno fatto festa per aver ottenuto nientemeno che la patente? Eppure il punto è proprio questo: quel piccolissimo diritto ottriato, le donne saudite se lo sono guadagnate: hanno creato un movimento, hanno smosso l’opinione pubblica e spesso si sono messe alla guida nonostante la legge. Le donne al volante sono di fatto un’avanguardia libertaria e la loro esperienza può essere una potente leva di cambiamento anche in altri Paesi. E allora sì, possiamo unirci senza imbarazzi alla festa nelle strade di Riad, perché purtroppo quando si parla di questione femminile il concetto stesso di diritto fondamentale diventa dolorosamente relativo: in Italia siamo i primi a rallegrarci se la curva dei femminicidi di scende e le donne ammazzate anziché 160 sono “solo” 140. Eppure il diritto inviolabile per antonomasia dovrebbe essere quello alla vita.