Questa non è una fiction. Noi con mamma Paola

Se non fosse che qui si ragiona della morte di una ragazza nel fiore degli anni, del dolore franato sulla sua famiglia e sulla numerosa schiera dei suoi amici, del grumo cupo che da trent’anni attanaglia la vita civile di questa città, sembrerebbe di essere stati catapultati in una fiction, una di quelle soap opera che, un colpo di scena dietro l’altro, tengono attaccati al teleschermo migliaia di avidi spettatori. Il primo botto, dopo tanti anni,

nel gennaio del 2016. Dopo aver lambito i vertici della Chiesa cittadina, essersi arenata nelle secche del Palazzo di Giustizia, essere incappata in improvvide distruzioni di reperti, l’inchiesta da Varese approda a Milano e dal cilindro della procura meneghina subito spunta il nome del possibile assassino. E il presunto colpevole finisce in carcere. Incanutito e sicuramente diverso da quel ragazzo del 1987, “bello e maledetto” secondo le testimonianze degli amici (?) di allora, ma pur sempre un perfetto colpevole.

Senza famiglia, senza un lavoro fisso, personalità tormentata tra fede, filosofia, passione ed eroina. L’identikit ideale dell’assassino. E poi la lettera, che l’accusa voleva scritta dalle sue mani appena ripulite, e quelle parole: “Perché io. Perché tu. Perché, in questa notte di gelo, che le stelle son così belle, il corpo offeso, velo di tempio strappato, giace.” Una specie di confessione, hanno sentenziato esperti particolarmente telegenici. Adesso, altro colpo di scena: proprio nel momento in cui per Stefano Binda era stata preparata la panca degli accusati, da Brescia ecco una voce ancora confusa, indefinita e nebulosa che però tramite avvocato afferma: «La lettera l’ho scritta io, il bello e maledetto non c’entra, quella poesia è farina del mio dolore, non dei suoi sensi di colpa».

Noi, che da questa vicenda non dobbiamo né tantomeno vogliamo ricavarci la sceneggiatura di un film, ma solo un barlume di verità che deterga la coscienza di una città e di una provincia che da trent’anni cercano un nome e un movente credibili, possiamo solo notare che sul delitto Macchi incombono, ad oggi, due enormi macigni.

Il primo pesa su chi ha tenuto in galera per oltre un anno un uomo fragile, esponendolo al ludibrio mediatico, dipingendolo, in ordinanze e rinvii a giudizio, come una personalità «fredda, calcolatrice, leaderistica, capace di esercitare un eccezionale carisma sugli altri che subivano il fascino della sua personalità intellettuale e delle sue doti affabulatorie». Parole che – se l’unico indagato dovesse essere scagionato – peserebbero a lungo su chi, anche in buonissima fede, le ha scritte. L’altro, forse ancora più pesante, grava su chi per tutti questi anni, e soprattutto negli ultimi quindici mesi, ha taciuto, spaventato forse dall’eventualità di essere additato come l’assassino, visto che “In morte di un’amica” sembrava essere una specie di confessione in maschera, una dichiarazione di responsabilità ammantata di immagini poetiche, religiose, colte. “Consumatus est”, aveva scritto la mano anonima. Che per tutto questo tempo non ha avuto il coraggio di alzarsi per autodenunciarsi: «L’ho scritto io». E i macigni, come si sa, quando si staccano e precipitano a valle travolgono tutto quello che trovano sulla loro strada, buono o cattivo che sia.

Ora la palla passa al tribunale. Toccherà ai giudici stabilire cosa è vero, verosimile, poco credibile, falso. Noi ci limitiamo a fare il tifo perché – come ha detto con la solita grande dignità e fermezza la madre di Lidia – «non si trovi un colpevole, ma la verità».

Mamma Paola, siamo tutti con te, con le tue lacrime e con il tuo composto dolore. Anche noi vogliamo la verità e non qualcuno da sbattere dentro per mettere la parola “fine” a questa lunga agonia di giustizia. Vogliamo la verità. E, come ci hai detto tu, confidiamo che Lidia, dall’alto, ci aiuti a trovarla.