Referendum e autonomie. Le vere sfide delle Regioni

Tra i punti più discussi della riforma costituzionale c’è il destino delle autonomie locali. I sostenitori del “no” paventano una deriva neo centralista, criticando il ritorno allo Stato di materie storicamente regionali (energia, trasporto, reti di comunicazione…). Ma anche l’impossibilità per il Senato di intervenire in materie statali che hanno un’evidente ricaduta sui territori e il potere non vincolante (quindi poco incisivo) dei pareri espressi da Palazzo Madama.

A queste obiezioni i sostenitori del “sì” rispondono stigmatizzando il modo con cui, ad oggi, le Regioni hanno gestito le materie di propria competenza. E aggiungono che la presenza di esponenti regionali in Senato permetterà di condizionare e discutere da subito quelle decisioni di interesse territoriale fino ad oggi calate dall’alto. Restano poi due aspetti che, in modo trasversale, preoccupano entrambi gli schieramenti. Il primo riguarda il ruolo politico di Palazzo Madama. In sostanza: la riforma potrà tornare davvero utile alle Regioni solo se i nuovi Senatori si comporteranno più come rappresentanti del territorio che come esponenti di partito.

Dovrebbero, in sostanza, ricalcare ciò che accade nel Bundesrat tedesco, dove i parlamentari riportano istanze e battaglie dei loro Lander, prescindendo dagli ordini di scuderia dei propri leader nazionali. Il secondo nodo è quello delle Regioni a Statuto Speciale, che non verranno minimamente sfiorate dalla riforma e che sono pertanto indifferenti alle sorti del referendum. La domanda è: ha senso perpetuare una diversificazione tanto iniqua e superata quando le parole d’ordine sono efficienza e modernizzazione?