Se le care vecchie regole del Galateo fossero valide anche sui social…

L’editoriale di Laura Campiglio

Se avete una connessione internet, sicuramente avete visto la prima pagina che Libero ha dedicato alla vicenda di Sofia, la bimba morta di malaria, e il titolo della pagina interna sullo stupro di Rimini. Se avete a cuore l’analisi dei fatti, la correttezza dell’esposizione, la ponderazione dei giudizi o anche solo una certa idea di stile, sicuramente avete fatto un balzo sulla sedia: la prima pagina indicava senza mezzi termini gli stranieri come untori dell’infezione da plasmodium falciparum (nonostante infettivologi e Procura stiano ancora cercando di capire come sia avvenuto il contagio), mentre il titolo interno indugiava sui più minuziosi dettagli dello stupro di Rimini solleticando il voyeurismo morboso dei lettori con termini da YouPorn e descrizioni da snuff movie.

Se questo sia giornalismo, non vale neanche la pena di discuterne: penne ben più autorevoli di quella di chi scrive hanno già ampiamente censurato Libero, lo sdegno dei lettori è stato unanime e, da buon ultimo, anche l’Ordine dei Giornalisti ha preso posizione contro il quotidiano deplorandone i toni sensazionalistici e l’incitamento all’odio razziale.

Ma una domanda sui social come veicolo di diffusione di un contenuto aberrante, quella sì, sarebbe il caso di farsela: se vediamo una cosa che non ci piace – di più, che riteniamo rivoltante – ha senso condividerla? Se pure la nostra intenzione è condannare recisamente uno slogan, una foto, un titolo, ha senso far girare proprio quello slogan, quella foto, quel titolo, contribuendo a diffonderlo? Vale la pena di chiederselo, perché i fatti parlano chiaro: tra i quotidiani nazionali Libero ha una diffusione piuttosto limitata,

eppure l’altro ieri ha beneficiato di una notorietà (negativa) strabiliante. Quella prima pagina che i più hanno giudicato insultante è diventata virale e ha totalizzato milioni di visualizzazioni: un successone per Libero, un paradosso per tutti gli altri. C’è qualcosa che non va, insomma. Spesso si sente dire che servirebbe un nuovo galateo dell’epoca di internet, una netiquette aggiornatissima capace di cogliere i cambiamenti fulminei del web, ma non è necessariamente vero. Per orientare la nostra condotta on line, di Galateo va benissimo anche quello vecchio: il trattatello scritto a metà del 1500 da messer Giovanni Della Casa, un’opera tanto citata quanto misconosciuta che resta tutt’oggi attualissima. Nel terzo capitolo, non a caso intitolato “Cose laide da non fare o nominare”, Della Casa con il suo stile pomposamente rinascimentale detta una norma valida anche e soprattutto nel caso in oggetto: “Non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via (come occorre alle volte) cosa stomachevole, il rivolgersi a’ compagni e mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare cosa puzzolente, come alcuni soglion fare con grandissima instantia, pure accostandocela al naso dicendo: Deh, sentite di gratia come questo pute! anzi doverebbon dire: non lo fiutate, perciò che pute”. In altre parole: quando ci si imbatte in una bruttura, la cosa più logica è non farla girare. E invece sempre più spesso ci ritroviamo ad allestire sulle nostre bacheche dei piccoli banchetti dell’orrore, condividendo quegli stessi contenuti che siamo pronti a condannare. Di tutti i cortocircuiti logici generati dalla comunicazione on line, questo è uno dei più inquietanti.

Ma dopo tutto, perché stupirsi? Facebook è un posto in cui non ha diritto di cittadinanza il buon senso, figurarsi il bon ton.