Dal rugby una lezione di vita Non soltanto allo sport

di Andrea Confalonieri
Come un rito di purificazione collettivo, domani ottantamila persone e qualche milione alla Tv ascolteranno in religioso silenzio la danza di guerra (haka) dei mitici All Blacks del rugby per mondare tutte le volte che invece hanno seppellito di insulti gli avversari in uno stadio di calcio. E ritroveranno i numeri sulla maglia dall’1 al 15, ognuno per il suo ruolo, accorgendosi di quanto sia stato stupido mettere davanti alla purezza e alla semplicità

della maglia il 99 di Cassano o l’80 di Ronaldinho.
È la potenza di uno sport sconosciuto o quasi alla grande massa eletto a simbolo di pulizia, e a furor di popolo, in nome del rimpianto per un calcio che non c’è più. Italia-Nuova Zelanda riempie San Siro come nessuna partita della nazionale di Lippi perché andarci è il modo più bello per ribellarsi a quello che ci hanno levato per sempre o che non siamo stati capaci di difendere abbastanza. E cioè il contatto con campioni umani che pur incassando molto più dei calciatori famosi si allenano davanti agli studenti e si fermano fino al tramonto per firmare autografi, visitano il Cenacolo (Pato o Balotelli sanno dov’è e cos’è?) e trovano un bambino all’ingresso che li saluta improvvisando l’haka, si presentano agli allenamenti in maglietta e pantaloncini mentre ai cancelli di Milanello e Pinetina sembra di assistere a una sfilata di moda.
E la sera magari cucinano un dentice neozelandese e lo offrono ai clienti di un ristorante popolare di Milano, mica da Trussardi alla Scala o da Giannino dove l’esercito delle guardie del corpo respinge la gente comune.
Ragazzi, da quanto tempo non si vedevano campioni come questi che fuori dal campo non fanno i fenomeni, campioni che si mettono alla stessa altezza della gente normale, campioni da toccare e guardare senza paura di essere presi a calci da qualcuno dei loro buttafuori?
Ma gli All Blacks non arrivano solo a costringere milanesi, napoletani, palermitani, veronesi, romani, inglesi, tedeschi e francesi a bere una birra e a mangiare una salamella insieme fuori dal Meazza: dietro a questo stadio stracolmo di sogni e non di odio come fu soltanto per la grande boxe (Loi-Ortiz, 1960) e per la musica (Bob Marley, 1980) c’è di meglio, c’è di più. C’è una palla ovale che rotola più forte, sempre più lontano e sempre meglio di un pallone rotondo mai così gonfio di sé ma sgonfio di tutto il resto.
Oltre a ritrovare silenzio e strette di mano laddove iniziavano i processi agli arbitri, oltre alla libertà di entrare liberamente in uno stadio da ogni parte d’Italia e qualunque sia la nostra fede senza il ricatto di dover acquistare una tessera del tifoso, c’è l’autentico sogno di un riscatto e di una via di fuga dal calcio malato. Il 75% di chi si avvicina al rugby in Lombardia (+50% in sei anni, siamo in pieno boom) ha meno di 20 anni e il 5% è donna. Sembrano freddi numeri, ma il mondo è dei giovani e certi valori (il contatto, il rispetto) s’imparano da piccoli. Giocando con un pallone. Ovale.

m.lualdi

© riproduzione riservata