Al carcere di Varesei muri vanno a pezzi

VARESE I detenuti continuano ad aumentare, nonostante gli sfollamenti che si susseguono uno dopo l’altro, a ciclo continuo. Otto su dieci sono persone in custodia cautelare, in attesa di una sentenza del tribunale, ma più aumentano e più sono le risse, le tensioni e le occasioni di litigio. Spetta alla polizia penitenziaria, costantemente e pesantemente sotto organico, risolvere ogni controversia senza mai intervenire sulla vera causa scatenante: una struttura, quella dei Miogni di Varese, piccola, vecchia e fatiscente tanto da rendere soffocante la vita in cella e impossibili le attività

di rieducazione e riabilitazione sociale. Una struttura che cade a pezzi (tutto transennato il muro di contenimento che divide i detenuti dagli uffici amministrativi) senza che un solo euro sia stato speso negli ultimi 3 anni per la manutenzione: «Investire qui sembra inutile dato che il nuovo carcere è annunciato come imminente – spiega il direttore Gianfranco Mongelli – peccato che ad oggi non abbiamo ancora ricevuto alcuna comunicazione ufficiale neppure su quale sarà l’area destinata alla sua realizzazione. Tanto meno si è parlato di tempi».

NON PIU’ TOLLERABILE
Che il carcere dei Miogni sia uno dei peggiori della Lombardia lo ha recentemente dichiarato anche il provveditore agli istituti di pena lombardi, Luigi Pagano, riconoscendo nel sovraffollamento e nella carenza strutturale i principali fattori scatenanti di disagi e proteste dietro le sbarre. In questo il primato varesino è disarmante: 2 giorni fa la popolazione carceraria era di 132 persone, il triplo della capienza regolamentare (44) e oltre misura anche rispetto alla soglia di tollerabilità, di 99 detenuti.
Significa che in una cella di 12 metri quadrati (14 il minimo per una camera matrimoniale) vivono per almeno 16 ore al giorno 3, a volte anche 4 persone, cui spettano 2 metri quadri ciascuno. Le celle poi sono dei corridoi di 6 metri per 2 con due letti a castello che lasciano a mala pena lo spazio per passare rasenti al muro. Un letto a destra e uno a sinistra, leggermente sfalsati con un tavolino in fondo che non ha delle sedie, ma solo 4 sgabelli e dove si fanno pranzo, cena e colazione.
Alle 8 del mattino, le celle si aprono e i detenuti possono uscire nel cortile, un piazzale di solo cemento, grosso come un campo da basket con un piccolo porticato, senza un albero e senza orizzonte. L’unico contatto con l’esterno è una telefonata di 15 minuti a settimana, 6 ore al mese per le visite dei familiari e la tv. Ma per il controllo del telecomando ogni giorno è una guerra. In cortile d’inverno fa freddo, ma almeno si può camminare, o giocare a calcetto con tornei che sembrano «mondiali» dato che quasi la metà dei detenuti non è italiana. «Cerchiamo di creare camere omogenee per lingua – spiega l’ispettore Rosario Arcidiacono, vice comandante della polizia penitenziaria – ma quando sono in tanti le tensioni aumentano». Il 29 sarà presentato un volume con la prima raccolta di poesie dei detenuti.
Lidia Romeo

e.marletta

© riproduzione riservata