Da maestro e papà dico: «Venite a benedire»

L’editoriale di Luca Ielmini, favorevole alla benedizione nelle scuole

Fossimo noi il dirigente della primaria di Bobbiate, per Natale il parroco lo lasceremmo entrare. Eccome. Parliamo da cittadini varesini, italiani, laici. Non siamo vetero-cattolici, non vediamo ateismo dilagante, né siamo terrorizzati da derive islamiche. Non ci addentriamo nella querelle sulle radici cristiane dell’Europa, non abbiamo bisogno di recuperare e sbandierare nessun primato. Proviamo a ragionare da genitori e da educatori. Per noi il parroco sarebbe il benvenuto.
Per prima cosa, benedire – cioè dire-bene –

è un gesto generoso e semplice. È Dio (certo, il Dio dei cristiani) che, al di là di tutto, rassicura il genere umano. Le cose andranno bene, nessun finale a sorpresa, nessuna paura ingiustificata. Di questi tempi è un messaggio di speranza tutt’altro che scontato. Da genitori ed educatori, ribadiamo, la benedizione del parroco di Bobbiate è una mano che si stende a proteggere i nostri figli, rassicurandoli, dicendo loro che ci sarà sempre qualcuno che se ne prenderà cura. È il bene – con la maiuscola o meno – che si fa strada tra quelle mura dando forza al lavoro quotidiano di maestri, bidelli e personale scolastico.
In secondo luogo (ed è qui l’argomento più forte e sostenibile), dobbiamo provare a ricordare che cosa fosse per noi bambini il parroco che veniva a scuola per Natale. Se noi proviamo a vedere le cose con gli occhi dei nostri figli, scopriamo che tutte le paranoie da cittadini laici non hanno nessuna ragione di essere. Per completezza, la benedizione parroco la mettiamo insieme a tutti quei riti che accompagnavano l’arrivo del Natale: la novena in chiesa, la benedizione delle case (per chi faceva il chierichetto), perfino le visite ai parenti.
In quei giorni (ma solo in quelli), tutto era capace di non farci soffrire troppo se poi – tra quegli impegni – avremmo dovuto saltare la partita del pomeriggio all’oratorio. Il motivo è molto semplice: si chiama accoglienza. Il Natale è una grande festa tutta rivolta al prossimo, al dono, al gesto disinteressato. Da piccoli avevamo la certezza che davvero tutti fossimo più buoni. Illusione o no, all’epoca non avevamo il vizio dell’analisi e il parroco che veniva a scuola non era un usurpatore della laicità dello stato (e della scuola) o un occupatore abusivo della nostra beneamata ricreazione.
Se qualcuno ha avuto il piacere di accompagnare il proprio don nella rituale benedizione delle case, ricorda quattro cose: il caldo e l’odore asfissianti nelle case degli anziani, le mance (in denaro o dolci) degli stessi, la data della benedizione segnata in rosso sul calendario proprio da tutti (anche dai non habitué della parrocchia), le infinite chiacchiere. Noi ce ne stavamo in disparte, gustando un pocket coffee, ridacchiando, col preciso ordine di non ascoltare. Il don, invece, ascoltava, ascoltava, ascoltava.
Ecco cos’è il Natale: una grande occasione di condivisione, di stare zitti e ed ascoltare quello che gli altri han da dirci, ricordandoci che non c’è nulla di cui non possiamo/dobbiamo non sentirci responsabili.
Entrando alla primaria di Bobbiate, il parroco ricorderà il suo messaggio più potente e rivoluzionario: c’è spazio per tutti, gli ultimi saranno i primi (se li ascoltiamo), non c’è nulla di così terribile che non possa essere riparato. I bambini certe cose le captano, i grandi fanno un po’ più fatica.