Dove finirà la poesia delle stelle, quando le vedremo da vicino, lontano dalla nostra casa?

L’elzeviro di Marco Tavazzi

Alla fine, se e quando l’umanità potrà solcare lo spazio, vedendo da vicino come sono fatte le stelle, e scoprendone di nuove, forse perderemo il fascino del mistero.

E tutta la poesia e la filosofia che per millenni hanno accompagnato l’umanità, mentre guardava quei puntini luminosi in cielo, non saranno più le stesse.

È stato per decenni, a partire dagli inizi del Novecento, un assunto che nessuno sembrava voler contraddire, quello che il progresso scientifico e tecnologico fosse necessario ed auspicabile. Sopra ogni cosa. Che fermare questo sviluppo fosse quasi andare contronatura.

Forse la nostra natura sta però venendo violata da questa eccessiva corsa alla tecnologia più sfrenata. Senza essere eccessivamente nostalgici, perché la nostalgia fa parte dell’animo umano, ma spesso non aiuta a vivere ma solo a crogiolarsi in un passato che non tornerà, possiamo dire con una certa sicurezza che spingersi sempre più in là, alla conquista di nuovi territori, fuggendo di conseguenza dal luogo natio, non porta per forza di cose alla felicità.

Pensiamo alle stelle. Al manto notturno, scuro, punteggiato da tantissime luci. Appaiono come occhi che ci guardano. Oppure sentinelle che fanno la guardia. O ancora fari nella notte che ci guidano.

E così sono state.

Lo spirito della scoperta dell’umanità ci potrebbe portare un domani a navigare negli abissi dell’universo, alla scoperta di nuovi mondi, come la fantascienza ci ha insegnato. Una possibilità concreta (è solo una questione di tempo) perché l’uomo ha nella sua natura il bisogno della conquista. Ma c’è conquista e conquista. E usare risorse per andare oltre il nostro pianeta non appare sciocco, quando non ne usiamo abbastanza per tutelare e rispettare questo sassolino nell’universo che è la nostra casa?