Griglie, lampredotto, tigelle e polpi. Così ci siamo ripresi piazza Repubblica

L’editoriale di Marco Dal Fior

Navigare quella piazza è uno spettacolo. Sarà per l’antipasto d’estate che questo week end ci sta regalando. Sarà per quell’incrocio di umanità che i volti e gli abiti degli altri passanti regalano agli sguardi curiosi. Sarà per gli acuti degli skateboard che si attorcigliano sotto i piedi dei ragazzini impegnati nelle loro acrobazie in pista. Sarà per gli effluvi che inondano l’aria e che raccontano di posti vicini e lontani, visitati anche solo con la fantasia di chevice peruviani,

di arrosticini abruzzesi, di lampredotto e baccalà. Oppure per il gorgogliare della birra nei bicchieri, il vociare di chi, seduto sulle panche di questo ristorante en plein air, alza la voce per farsi sentire e sovrastare un rumore di fondo fatto di colonne musicali, friggitrici che crepitano, ordini che si rincorrono («Chi aspettava il fritto?»), bambini che scorrazzano.
In fondo il cibo è il biglietto da visita di un popolo. E se gli americani hanno qualche considerazione dell’Italia è perché un Paese che ha inventato la pizza – pensano – non può essere un popolo solo di mafiosi. E sì che abbiamo esportato prima Cosa Nostra che i pomodori San Marzano. Ma gli americani sono stati capaci di fare le dovute distinzioni. Noi, analfabeti del melting pot, ci dobbiamo ancora arrivare.
Varese in questo fine settimana si è ripresa piazza Repubblica. Lo ha fatto appoggiandosi, invece che alla fanteria come qualche sprovveduto invoca, a una task force fatta di griglie, spillatrici, fuochi e fornelli.
È il Lake Street Food Festival, un cocktail di cibo, divertimento, musica e sport. Ristoranti mobili arrivati da tutta Italia trasformano la piazza più chiacchierata della città in una specie di grande e variegata festa di paese. Non si vedono in giro brutti ceffi: ci sono i bambini nel passeggino e quelli che si intrufolano tra i tavoli facendo impazzire le mamme, genitori, giovani, nonni. Tutti uniti, si direbbe, dalla voglia di vivere.
Pochi metri più in là, in Galleria Manzoni, un pianoforte è a disposizione di chi vuole provare a suonare. Un altro è piazzato all’Arco Mera. Vi si alternano bambini che provano i brani appena imparati a scuola di musica, giovani che tentano improvvisazioni jazzistiche, mani sapienti addestrate da ore e ore di esercizi che si rincorrono alla ricerca delle armonie di Chopin. E attorno crocchi di persone si fermano con il cono gelato che si scioglie nelle mani ad ascoltare e a farsi ammaliare da quelle note inaspettate e fortuite.
È la Varese che ci piace, rilassata e fiduciosa, lontana anni luce da quell’immagine di città con l’elmetto che frotte di politici livorosi hanno contrabbandato per troppi anni, inventando pericolosi nemici dietro ogni angolo: Roma ladrona, gli immigrati, i rom, chi non abita nella Val Bossa. Varese invece ha voglia di vivere in pace, divertendosi quando è possibile. Con un panino di polpo alla brace, piuttosto che con una tigellona da colesterolo record.
E la piazza che qualcuno vorrebbe di frontiera, da presidiare con i carri armati e i moschetti, torna ad essere il centro accogliente di una città ospitale.
Spiegatelo a chi invoca l’esercito forse per coprire anni in cui sul tema si era un po’ troppo distratti: la guerra all’abbandono e all’indifferenza si vince con le iniziative, la fantasia, la voglia di rischiare. Insomma: molto meglio le patatine fritte dei mitra.