Se il mondo è fatto di pregiudizi e diversità il teatro, dove vive la libertà, offre integrazione

Il Suggeritore - la rubrica di Roberta Colombo sul mondo del teatro

Immaginate un luogo che sia una zona franca e che spogli le persone dalle proprie identità culturali, etniche, linguistiche, religiose. Immaginate che questo luogo sia all’interno della vostra città e che non ci sia bisogno di un moderatore, di un cosiddetto “operatore interculturale” o di altri interpreti o traduttori. Sembra impossibile.

Allora forse è il momento di fermare l’immaginazione per aprire gli occhi sulla realtà. La realtà è abbastanza nuda e cruda: l’Italia è un paese che sta diventando sempre più multietnico ma non vuole accettarlo. Accogliamo, ma vogliamo in qualche modo mantenere le distanze dallo straniero. Ci fa paura: è diverso, mangia diverso, ha un odore diverso, ha una religione diversa, è diversamente italiano. E poi c’è il terrorismo, la spada di Damocle del nuovo millennio. Non condanniamoci: ciò che non si conosce fa paura, è un istinto primordiale dell’umano. Eppure conoscerci è l’unica via per sopravvivere a questa “convivenza forzata”.

Ci sono mille luoghi in una città dove ci si incontra: le scuole, i parchi, il lavoro, la strada. Perché allora è così difficile conoscerci ed entrare in relazione? Forse perché questi non sono luoghi poi così neutri… Sono casa nostra. Integrarsi in casa degli altri non è facile. C’è la voglia di essere sé stessi ma allo stesso tempo si è condizionati dal pensiero degli altri, dalle loro regole, dal loro modo di vedere il mondo. E poi c’è il teatro. Il teatro insegna che sul palco l’attore è come un foglio bianco, senza identità o categorie prestabilite.

Non c’è più la società, non ci sono più le convenzioni. Si può giocare come quando si era bambini. Si è liberi, finalmente, di essere o non essere sé stessi. Potrebbe essere un punto di partenza interessante per l’integrazione. Nel teatro l’attore entra ed esce da varie storie, si immedesima nell’altro con più facilità che nella vita reale. Il gruppo si scambia emozioni, paure, gioie, dolori.Le condivide e ne sente meno il peso.

Su un palco si comincia a crescere davvero perché il mondo falso e dei pregiudizi resta fuori e il mondo vero è tutto dentro. Su un palco un italiano può diventare un profugo siriano e viceversa. Entrambi possono sperimentare, o provare almeno, a capire l’altro. L’Italia allora non sembrerà poi così strana per un africano che passerà il Natale in Casa Cupiello. La lingua non potrà che migliorare, arricchirsi al di fuori delle frasi prefabbricate dai mini dizionari per turisti.

Perché loro, qui, non sono turisti. Alcuni se ne andranno ma altri rimarranno per cercare di assomigliare a noi. Essere sé stessi ma integrarsi con gli altri allo stesso tempo, l’eterno dilemma del Multiculturalismo. Dove i politici hanno fallito forse l’arte può fare qualcosa, o almeno provarci. L’attore stando sul palco impara anche il rispetto per l’altro, per le distanze, per l’età. C’è chi il rispetto non sa cosa sia perché non gliel’hanno insegnato. Qui potrebbe sperimentarlo.

C’è chi non è abituato a prendere comandi da una donna perché essa in alcuni paesi conta meno dell’uomo. Se gli capiterà di avere una regista donna, dovrà cambiare i propri parametri. Noi ci abitueremo a nuovi modi di comunicare, di pregare. Proveremo ad indossare un velo integrale a sapremo cosa si prova.

Si può rimanere Cristiani anche se si legge una pagina di Corano. Si può restare Musulmani anche se in classe c’è il Crocefisso. Se l’esperimento riuscisse, allora questo gioco non sarebbe più solo tale. Ognuno scenderebbe dal palco, con la propria identità ma con la voglia (non l’obbligo) di continuare a conoscere l’altro.