La villa di Comerio aveva un destino Ma ora c’è Riccardo

Ripetersi che è un gesto stupido non è efficace quanto premere il pedale del freno, ma il piede destro rimane sull’acceleratore e la Volvo mantiene la sua direzione superando la rotonda e affiancandosi agli alianti che riposano nelle cinque di quel caldo pomeriggio. Prima di due settimane addietro Riccardo non aveva mai visto un aliante se non in Tv.

Oggi erano d’accordo sul non vedersi, lo sa, ma Lorena gli sembra una donna molto sola, e farle una sorpresa anche solo per un caffè pensa potrebbe farle piacere. Un caffè preso da soli non è mai troppo buono, lui ne sa qualcosa.

Arriva presto al numero 12, che ormai fa una degna figura rispetto alle case circostanti.

Forse s’è sbagliato. Forse Lorena non è sola e lui è stato stupido a pensarlo. La Ford nera sfiora il limite del cancello e a Lazzati sembra quasi che lo derida dicendo «sono arrivata prima io».

La macchina potrebbe anche essere parcheggiata lì per caso, interessata ad un’altra dimora. Non è certo di voler entrare, ma anche rimanere fuori sembra un gesto stupido dopo aver percorso i sessanta chilometri che dividono il suo ufficio dalla casa.

Conta i passi lungo il cancello mentre cerca nel lago un suggerimento sul da farsi.

«Per favore ora basta!».

«Basta? Non puoi prendere delle decisioni del genere per conto tuo».

«Questa è casa mia, posso prendere tutte le decisioni che voglio».

«Ma qui ci sono anche le mie cose!».

Il limite tra un tono di voce alto e un grido è talmente sottile che Lazzati non saprebbe dire se si tratti di uno o dell’altro. Capisce però che le parole giungono dalla casa, scappando attraverso le finestre aperte sul caldo di luglio.

«Gilberto, ora te ne devi andare».

«Come posso andarmene?».

«Quella è la porta. La conosci bene».

«Non farlo Lorena. Non permetterti di trattarmi come uno stupido».

Cerca le figure fra le finestre della casa, ma dal cancello è quasi impossibile scorgerle.

«Vattene, o chiamo la polizia».

«E che cosa puoi dire? Che sono entrato usando le mie chiavi?».

Ogni parola della voce maschile sembra una minaccia, pesa come piombo sulla sicurezza di Lorena, che ad ogni risposta perde il controllo della voce.

«Per favore, vai via».

Riccardo osserva il citofono. L’invadenza non è mai stata una sua prerogativa, ma la voce che giunge dalla casa non lo mette a suo agio. Incredibile come possa essere complesso l’atto di premere un pulsante.

Al suono dell’apparecchio le voci si abbassano, ma l’uomo non smette di parlare, intimando a Lorena di non andare ad aprire. Lei probabilmente non gli da ascolto e la serratura automatica scatta.

Entrando a passo incerto, Riccardo vede uscire dalla porta d’ingresso Lorena e l’uomo. Lei ha gli occhi arrossati, lui la mascella quadrata. Sembra arrabbiato nel suo completo grigio.

«Mi perdoni Riccardo, non la stavo aspettando, non ricordavo nemmeno che ci dovessimo vedere».

«Non dovevamo, in effetti, ma ero in zona e ho pensato di lasciare qui le vernici per il gazebo». È una mezza verità dopotutto.

L’uomo dietro Lorena non dice nulla, ma gli occhi sono pieni dei pensieri che ha per lui in questo momento.

«Ma certo, certo. Venga pure dentro».

«Mi spiace avervi disturbato, se è un problema posso ripassare».

L’uomo sembra meno violento di quanto le sua voce facesse presupporre, ma Lazzati non si sente sicuro all’idea di lasciarla sola con lui.

«Non si preoccupi, me ne stavo andando. Lorena domani ne discutiamo».

Lei non gli risponde, fa strada all’ospite in casa lasciando all’uomo l’autonomia di ritrovare la via per il cancello.

L’ordine della casa è inversamente proporzionale a quello di Lorena. Ha i capelli spettinati, le guance e gli occhi arrossati e i vestiti di due taglie più grandi la fanno sembrare più piccola di quanto lei già non si senta.

«Mi perdoni per la pessima accoglienza, quella di prima era una visita inaspettata».

«Non si preoccupi. Senta, posso darle del “tu”?».

Lorena si arresta. Quella è la prima cosa sensata che le viene chiesta nel pomeriggio.

«Ma certo Riccardo. Vuoi del caffè?».

Lui esita prima di rispondere. «Non è necessario. Lorena, scusami se te lo chiedo, ma va tutto bene?».

Non lo sa. Non ha idea se le cose stiano andando male o bene, e senza riflettere glielo dice. È come perdere un chilo in un istante e la sensazione è troppo intensa per non essere sperimentata ancora. Così gli dice di Gilberto, del suo averle chiesto di sposarla e poi averla tradita. Del suo aver dato a lei la colpa del tradimento per “carenza di affetto”. Gli racconta tutto, e più lo fa e più diventa leggera. Gli spiega come la casa fosse per loro, per la famiglia che non avranno mai. Gli rivela la sua cattività forzata per tenere lontano il mondo e di sua madre che come ogni madre le è stata accanto al di sopra del sopportabile. Tutto.

Riccardo la guarda e l’ascolta nel mondo in cui fa qualcuno a cui importa. L’ascolta e non dice nulla, consapevole che ogni parola sarebbe vuota.

Il caffè si fredda nelle tazze fino alle sette di sera.

«Perdonami, non avrei dovuto trattenerti. Sono solo una sciocca».

«Affatto. Se vuoi che resti posso farlo».

Lorena insiste che non vuole approfittarne, e lo libera dalla sua cortesia.

Mentre apre la porta bianca dello studio di Gilberto, tiene delle scatole di cartone sotto al braccio. Riponendo ogni documento nel cartone si scopre stare bene, sentirsi bene. Lui sembra un uomo buono. Lui voleva restare.

«Sì, sto tornando. No, solo delle faccende per la casa – sorride – Smettila di far domande e fidati di me. No, ci sono quasi, sono appena entrato in Milano. E va bene, ti prendo i pop corn, ma il film lo scelgo io. Ok».

© riproduzione riservata