Contano i programmi. Non il paese sul passaporto

Il commento del nostro Francesco Inguscio

«Aiuto, aiuto: l’Inter diventa cinese!».
Già sentiamo salire i lamenti di chi rimpiange i bei tempi andati: «Ma come – si chiedono i professionisti della nostalgia – la nostra amata Inter, la squadra di Milano, finisce in mano a questi signori cinesi della Suning? Cioè, la proprietà dell’FC Internazionale diventerà completamente asiatica? Oddio, che cosa terribile…».
No, non c’è nulla di terribile, cari amici nerazzurri: semplicemente sono cambiati i tempi, e soprattutto gli scenari economico-finanziari (vi dice qualcosa la Pirelli venduta ai cinesi?).

Certo, saremmo tutti felici se l’Inter avesse un proprietario milanese, multimilionario, interista fino al midollo, disposto a investire nel calcio vagonate di quattrini (un altro Moratti, insomma).
Ma c’è un piccolo particolare: questa figura non esiste. Oggi i grossi capitali sono lì, in Estremo Oriente. Oppure negli Emirati Arabi. In Italia… un po’ meno.
E chi ha grosse disponibilità economiche, ben difficilmente decide di investire nel mondo del pallone (e come dargli torto?). Allora ben vengano i proprietari stranieri, se questi portano capitali freschi e progetti industriali di largo respiro. Non ci pare che i tifosi del Paris Saint Germain e del Manchester City abbiano di che lamentarsi delle loro proprietà (rispettivamente) qatariote e emiratine; o che i fans del Leicester spingano per sostituire il patron thailandese dal cognome impronunciabile (ma capace di portare le Foxes al trionfo in Premier League) con un gentleman inglese in tight e bombetta.
La vera differenza la fa la serietà dei programmi, non la provenienza geografica. Su quella bisogna vigilare, non sul passaporto. All’Inter non serve avere un proprietario nato e cresciuto alla Bovisa, ma squattrinato e magari malintenzionato; serve una robusta iniezione di capitali freschi che possano contribuire a riportare la Beneamata ai livelli che le competono. E poco importa se i capitali arrivano da Pechino, Doha o San Pietroburgo.
È la globalizzazione, bellezza. Perché il calcio dovrebbe essere immune ai cambiamenti della società?