Da Londra a Rio: un salutare passo indietro

Perché lo sport paralimpico resti quello che è . Il commento di Francesco Caielli

Dopo le Paralimpiadi di Londra 2012 tutti quanti gli addetti ai lavori erano stati concordi: «È stato tracciato un solco, nulla sarà più come prima». Troppo belle, troppo intense, troppo ben organizzate quelle Paralimpiadi: per la prima volta il mondo si era accorto di questi atleti speciali e unici nella loro diversità, per la prima volta il mondo si era trovato davanti le loro storie. Ci si aspettava tanto, tantissimo dalle Paralimpiadi di Rio, nella preoccupata consapevolezza che era forte il rischio di fare un passo indietro rispetto a Londra. Passo indietro che c’è stato, inutile negarlo: un passo indietro dal punto di vista organizzativo (ce l’ha detto chi c’è stato) e soprattutto della copertura. Sky nel 2012 aveva fatto un lavoro magnifico, la Rai pur con un impegno che va riconosciuto non è stata capace di fare altrettanto.

Un passo indietro che, per come la vediamo noi, è stato come fare tre passi avanti, anzi: dieci passi avanti. Perché sì: dopo Londra 2012 eravamo un po’ preoccupati. Troppi e troppo frequenti i paragoni e le analogie tra Olimpiadi e Paralimpiadi, troppi e troppo pericolosi i punti di contatto e le contraddizioni (una su tutte: Pistorius, che ha preso parte a entrambi i Giochi). Troppa la voglia e le tentazioni di trattare lo sport per normo e per disabili come se fossero la stessa cosa: perché, parliamoci chiaro, non sono la stessa cosa.

Da una parte la ricerca continua e spasmodica della prestazione e del risultato (per vincere vale tutto), l’esasperazione dello sport e della competizione, la politica e i tribunali che entrano a gamba tesa (il vergognoso caso Schwazer, per dirne una). Dall’altra, la semplice gioia di esserci, di partecipare, di essere felici per la vittoria di un avversario (il sorriso sincero della fiorettista cinese appena sconfitta da Bebe Vio, il nostro manifesto di questi giochi).

Un passo indietro, e meno male. Lo sport Paralimpico resti nella sua, splendida dimensione: senza scimmiottare niente e nessuno, perché non ne ha bisogno. Senza la pretesa di essere “uguali agli altri” perché no: i paralimpici non sono uguali agli atleti normo. A volte, anzi spesso, sono meglio: quindi, restino quelli che sono.