I segreti di Andrea Macchi, terzo al Tor Des Gèants. «Sfida, divertimento, libertà. E le ali di mio figlio»

La lince di Gavirate e il trail più duro al mondo: 330 chilometri sul Monte Bianco, 74 ore di corsa, mezz’ora di sonno

330 chilometri di corsa in montagna. Questo è il Tor Des Gèants, una delle più importanti gare di trail ultra xlong del mondo che ogni anno si svolge all’ombra del Monte Bianco sui sentieri valdostani delle Alte Vie. Poche ore di sonno, rifornimenti extra veloci e una completa immersione nella natura, con in testa il traguardo e con la possibilità di sentirsi liberi, di essere se stessi. Perché il Tor, come il trial in generale, è quasi una filosofia, uno stile di vita; un sentiero che si sceglie di percorrere per poter “volare” come ha fatto Andrea Macchi, la Lince di Gavirate, arrivato terzo nell’ultima edizione del “trail più duro al mondo”.

Riabbracciare mio figlio Lorenzo, lui mi ha messo le ali ai piedi durante la gara. Poi ho realizzato quello che ho fatto.

Molto, non potevo fare meglio di così dal punto di vista personale. Quest’anno sono stati infranti tutti i record, basti pensare al mio tempo: io ho terminato la prova in 74: 51: 14, un gran tempo. Penso proprio che con questo risultato avrei potuto vincere almeno 5 edizioni del Tor, mentre quest’anno è valso il terzo posto.

Sono partito bene perché al via mi sentivo pronto sia fisicamente che psicologicamente. Ero consapevole di poter far un buon Tor e di potermi scontrare con gli altri partecipanti per giocarmela fino alla fine, senza perdere quell’indispensabile voglia di divertirsi; credo fortemente che quest’ultimo fattore sia stato decisivo ai fini del risultato. La gara in sé è andata bene. In questa disciplina devi cercare di essere il più lucido possibile e di prestare attenzione al percorso, perché il terreno accidentato è un compagno di viaggio a cui piace fare degli scherzetti. Per il resto mi sono gestito seguendo il consiglio di un caro amico: «Vai piano, fai attenzione ma mettici poco».


Quando sono rimasto da solo. È il punto nel quale soffri maggiormente perché fare tanti chilometri in solitaria può darti alla testa, considerando che sei anche molto stanco per non aver dormito a sufficienza. Sono quei momenti dove le energie mentali diventano veramente fondamentali e decisive.

La prima notte mi trovavo con altri cinque atleti in prossimità della cima di un colle. Stavamo tirando ed ero concentrato sulla gara, anche se essendo immerso nella natura l’occhio scappa sempre; è un modo per far passare il tempo e sentir meno la fatica. In quel momento ho visto una stella cadente ed ho urlato: «Una stella cadente, una stella cadente». Allora tutti si sono girati riuscendo a vedere il momento nel quale diventa rossa e poi sparisce, disintegrandosi nell’atmosfera. È stato molto bello, oltre che curioso.


Certo, l’ho fatto. E l’ho anche detto agli altri quattro senza però svelarne la sostanza. Se posso farlo sapere? Contrariamente a quanto si pensa non ho sperato in un aiuto per la gara in corso ma ho “chiesto” di poter arrivare alla fine con ognuno di loro.

È proprio così. Queste gare sono l’opposto dell’agonismo canonico: con questo non voglio dire che la voglia di vincere e di arrivare prima degli altri non ci sia, ma appena abbandoni la strada e inizi a correre lungo i sentieri capisci che la natura, in questo caso la montagna, è meglio affrontarla insieme agli altri. Ecco perché si corre, si lotta ma si è sempre pronti a dare una mano a un avversario.


Vero, quasi mai a dir la verità perché non puoi fermarti se vuoi correre per vincere; in 75 ore avrò dormito 30 minuti. Arrivi in un punto vita o in un rifugio e riparti subito perché c’è il rischio di perdere concentrazione e di raffreddarti troppo. Poi uno può arrivare nei punti vita o nei punti di ristoro e fermarsi, ma lo fai solo se hai scelto di fare il Tor al posto di una vacanza tradizionale.

Mi è stato dato da Silvano Gaden, lo speaker del Tor. Ogni anno ne trova di nuovi e quando me lo ha dato mi è piaciuto e me lo sono tenuto.


Ho un allenatore che mi segue e mi prepara i programmi da portare avanti. Avendo un lavoro normale è necessario saper fare dei sacrifici, ma per fortuna questo programma è flessibile e si adatta alle mie necessità. Diciamo che durante la settimana ho due giorni di riposo, mentre negli altri mi alleno per un’ora e mezza; nei fine settimana anche un po’ di più. Ma gli aspetti più importanti sono il riposo e l’equilibrio tra gli allenamenti e i giorni liberi.

Sono fortunato, perché la mia famiglia non smette mai di sostenermi e appoggiarmi, in primis mia moglie Chiara. Per quanto riguarda il lavoro sono un giardiniere, quindi lavoro molto, anche più di 8 ore al giorno. Però posso contare sul mio socio Michel, che è un grande amico oltre che uno dei miei primi tifosi.

Sono sempre stato uno sportivo. Da giovane facevo canottaggio con buoni risultati essendo riuscito ad ottenere anche un bronzo nei mondiali Under 23 di Amsterdam nel 2015. Poi l’ambiente un po’ troppo politico e la mia voglia d’indipendenza mi hanno portato a cambiare, ma la corsa su strada non mi appassionava. Così mi sono iscritto ad un training di trial in montagna e da quel momento non ho più smesso.

Alcuni mi daranno del pazzo anche perché è difficile spiegare e far capire quello che faccio, ma correre così tanto immerso nella natura mi fa sentire felice. Mi sento libero e in sintonia con me stesso quando “volo” sui sentieri. n