Il filo della storia ci ha riportati in un calcio vero. Perché la nostra gloria travalica ogni caduta

Il commento di Gabriele Galassi da Pisa

All’Arena Garibaldi di Pisa c’è profumo di calcio vero. Lo si respira fuori dallo stadio, dove scorrazzano i motorini, le macchine sono parcheggiate alla buona, i paninari vendono salamelle, acqua e birre a ripetizione, i pisani camminano disordinati vestiti di maglie ufficiali e vessilli della loro squadra. Lo si respira dentro lo stadio, dove i tifosi biancorossi, partiti in 150 dalle Prealpi, prendono posto con orgoglio nel settore ospiti: non vedevano l’ora di tornare in certi stadi, in certe piazze, a guardare dritti negli occhi certi (grandi) avversari.

Già un’ora prima del fischio d’inizio lo striscione di Passione biancorossa è al suo posto: dietro ci sono l’Antonella, il Rinaldo e il Federico, il Mario, Stefanone, Zecco e i gemelli Tres… Sventolano, le bandiere a scacchi biancorossi; sventolano l’orgoglio di esserci, l’amore per la maglia, il sostegno incondizionato ai colori del cuore, il desiderio di rivivere queste trasferte. In casa Pisa la tribuna centrale è gremita, al pari dei distinti, scoperti, sul lato opposto. Al completo la Curva Nord che guarda verso la Torre pendente: è un trionfo nerazzurro, puntellato qua e là dal rosso della Repubblica marinara. Ed è proprio dal settore più caldo del tifo toscano che, al nome Varese, si alzano i fischi: una rivale, e la sua gloria, travalicano categorie, fallimenti, cadute.

Apre il Varese e lo fa tra i “buuu” e ulteriori fischi. Poco dopo il fischio d’inizio arrivano gli ultras biancorossi, che si scaldano con un classico “Pisa, Pisa, vaff***”; l’urlo di benvenuto non tarda ad arrivare: “Varesotto pezzo di ***”: sì, ci odiamo ancora, e torneremo a odiarci presto, promesso. Dodici minuti e il Varese passa in vantaggio con Palazzolo: i pisani non si scompongono, le bandiere dei ragazzi della Curva del Varese, tra cui diversi tricolore, sembrano arrivare a toccare il cielo. Il cielo dove c’è Erika, la nostra piccola grande guerriera, che oggi gioca sulle divise del Varese: al centro, dove batte il cuore, c’è il simbolo di Fuck The Cancer; poco sopra, quello della Fondazione Giacomo Ascoli.

Mister Salvatore Iacolino, elegantemente sportivo con la nuova polo nera della società, segue la partita sulla linea dell’area tecnica: tiene le braccia dietro la schiena, dimostrando sicurezza; dà indicazioni a capitan Ferri per trasferirle ai compagni; si gode, soprattutto, una squadra su cui ancora dovrà lavorare tecnicamente ma, forse, non sul carattere: a Pisa, contro un avversario del piano di sopra, non c’è timore, ma solo coraggio e personalità, puro dna biancorosso.

I canti dei pisani sono assordanti, tra fumogeni rossi e l’urlo “Chi non salta è un livornese”. Il rapporto degli ultras biancorossi, a petto nudo, è di uno a cento, ma questo non li condiziona minimamente: dal settore ospiti si alzano “Dai Varese lotta e vinci insieme a noi”, “dicono che vado allo stadio e sono deficiente /dicono che il Varese non vince niente / ma io me ne frego, resto al mio posto / ma io me ne frego, son biancorosso!”, “per sempre ti sosterremo / ovunque ti seguirò / onora la nostra maglia / dai Varese facci un gol!”.

Dalla panchina del Varese si alza Pietro Frontini, che raggiunge Iacolino e gli consegna un biglietto, che forse in realtà è un filo della storia. La storia, che ha riportato il Varese a guardare in faccia una grande rivale (vera, storica, da odiare con ammirazione). La storia, che i tifosi scrivono partita dopo partita, trasferta dopo trasferta. La storia, che questa squadra e questa società devono costruire, senza se e senza ma, nella prossima Serie D. Per tornare da dove siamo venuti. Per tornare dove meritiamo di stare. Per tornare a fare la storia, dove si fa la storia.

Torneremo qui. Il Pisa vince, il Varese sogna
e le pagelle del Varese Calcio