«In campo io portavo l’acqua . Claudio la trasformava in vino»

La metafora - Patrizio Sala: «Entrando in quello spogliatoio realizzavo un sogno»

«Io portavo l’acqua, Claudio Sala la trasformava in vino, Pulici e Graziani lo bevevano». Patrizio Sala racconta così – con una metafora che sarebbe piaciuta a Gianni Brera – il suo ruolo nel Torino scudettato del 1976, l’altro “Grande Toro”. Brianzolo di Bellusco, classe 1955, Sala è stato uno dei grandi protagonisti di quella memorabile stagione granata, il più giovane, con i suoi 20 anni.

«Ho esordito in Serie A vincendo subito lo scudetto: diciamo che non mi è andata male – racconta Sala, che oggi gestisce una scuola calcio insieme al collaboratore Italo Demichelis – Al Torino sono arrivato grazie a Gigi Radice, il mio padre putativo calcistico. Mi notò nel Monza e mi volle con sé al Toro. Se ripenso a quel periodo, la prima cosa che mi viene in mente è l’impatto con la città. Figuratevi, appena ventenne arrivavo a Torino da un paesino di quattromila anime…».

Dalla verde e tranquilla Brianza alla grande e industriosa Torino degli anni ’70: al giovane Patrizio il capoluogo piemontese dovette sembrare sconfinato: «E come posso dimenticare il primo allenamento al Filadelfia? Entrare in quello spogliatoio, infilare le scarpe in quel quadratino di legno dove si cambiavano gli eroi del Grande Torino, non poteva lasciare indifferente uno come me che vive di emozioni. Stavo realizzando il sogno che avevo da bambino: calcare i grandi palcoscenici della Serie A».

Il debutto in prima squadra avviene in maniera particolare: «Partita di Coppa Italia, non ricordo contro quale squadra. Sono seduto di fianco a Radice e al dottor Bonetto, allora direttore generale del Toro. A un certo punto Radice si gira e mi chiede a bruciapelo: tu al posto di chi ti vedresti bene in questa squadra? Rispondo secco: al posto di Salvadori, che giocava mediano. Nella partita successiva di Coppa Italia, a Verona, sostituisco proprio lo squalificato Salvadori. E da quel momento non esco più dall’undici titolare». La stagione parte così così, i granata scivolano anche a -5 dalla Juve capolista, ma in primavera accade l’imponderabile: i cugini bianconeri perdono tre partite di fila (la seconda è proprio il derby) e un Toro inarrestabile irrompe in testa alla classifica: «Ho ancora nelle orecchie il boato dei nostri tifosi al gol dell’interista Bertini contro la Juve: Radice non voleva radioline in panchina, ma l’urlo del pubblico ci fece capire che la Juventus stava perdendo. Vincere lo scudetto ai danni dei cugini bianconeri ha dato un sapore ancora più dolce alla nostra impresa. E poi – continua Sala – Il nostro è stato il primo trionfo granata dai tempi del Grande Torino, una squadra il cui fascino è ancora irresistibile. Io l’ho provato sulla mia pelle, ascoltando i racconti dei tifosi più anziani che narravano le gesta di Valentino Mazzola, Loik, Gabetto, Castigliano, Maroso e tutti gli altri eroi di Superga».
Ventisette anni dopo, il popolo granata ha potuto gioire di nuovo: «La nostra era una squadra compatta, aggressiva, con tanti grandi giocatori ma nessuna primadonna: tutti si mettevano a disposizione dei compagni. Il valore aggiunto era Gigi Radice. E se proprio devo scegliere un giocatore, dico Claudio Sala, un campione formidabile: aveva estro, fantasia, qualità, ma anche la giusta cattiveria in mezzo al campo. Un giocatore estremamente moderno».

Squadra e tifosi formavano un tutt’uno: «Ai nostri allenamenti i cancelli erano sempre aperti. Alla partitella del giovedì contro la Primavera c’erano duemila persone. Giusto così: non puoi togliere a un tifoso la voglia di abbracciare il proprio idolo o chiedergli un autografo. Ho ancora a casa una foto in cui sono circondato da un’intera famiglia: bambini, nonni, ragazzi. Adesso blindano tutto, chiudono i cancelli, i bambini tornano a casa senza autografi». Il Toro è rimasto nel cuore di Patrizio Sala: «Lo seguo in tv, ma soprattutto mi interessa il bel calcio. Guardo le squadre che giocano bene. Per essere chiari: tra Atletico Madrid e Bayern, scelgo il Bayern. Ai ragazzi che alleno deve arrivare questo messaggio: vincere è importante, ma il modo in cui lo fai conta ancora di più».