«La Dakar è magia pura fatta di polvere e colori»

Il varesino Martino Bianchi è il GM del Team Rally della Honda e ha sfiorato la vittoria alla Dakar 2017

Quasi 9000 chilometri, il vento che quasi ti solleva da terra, il sole che se non stai attento ti scioglie. Poi il gelo, la pioggia che ti invade la tenda e ti costringe a dormire nel furgone, il fango, la polvere e l’adrenalina che ti tiene sveglio nonostante le 2-3 ore di sonno a notte. Questa è la Dakar. La corsa più difficile al mondo. Quella più lunga, quella più pericolosa. È un’infinita corsa contro i più forti, immersa in paesaggi incredibili: è un’interminabile sfida contro gli altri, contro se stessi e contro il mondo, che ora ti accoglie, ora ti sputa in faccia.

Anche quest’anno la Dakar ha infiammato il Sud America: in due settimane, dal 2 al 14 gennaio, la corsa rallistica (per auto, moto, quad e camion) è partita da Asunción, in Paraguay e in dodici tappe ha attraversato la Bolivia per arrivare a Buenos Aires, in Argentina.

Una sfida epica che quest’anno è stata vinta dall’inglese della Ktm, ma che avrebbe potuto avere un altro esito. La Honda, infatti, ha dominato gran parte della corsa, vincendo ben 5 tappe su 10: la vittoria avrebbe potuto andare alla casa di costruzione giapponese se una penalizzazione di un’ora non avesse compromesso tutto, costringendola al quinto, al sesto posto e al nono posto.

Il sogno di vincere la corsa più difficile al mondo, quindi, è sfumato davvero a tanto così. Era il sogno dei piloti Honda ma soprattutto era ed è, ancora, il sogno di , il varesino che dopo una vita da giornalista e una carriera nell’industria legata al mondo delle ruote in fuori pista, è diventato nel 2013 il General Manager proprio del Rally Team della Honda Racing Corporation. Martino è tornato martedì dalla sua Dakar (la quarta in carriera) e ha voluto condividere con noi l’esperienza, cercando di spiegarci che cosa significa arrivare ad un passo dal vincere la corsa più importante e più difficile del mondo.


Il sogno purtroppo è sfumato per un errore di interpretazione del road book: avevamo inteso che avremmo potuto fare rifornimento di carburante in un certo punto del percorso quando, in realtà, non eravamo autorizzati. La squadra ha interpretato in modo errato e ci è stata data un’ora di penalità: senza quella avremmo vinto, dopo aver dominato in 5 delle 10 tappe disputate. Avremmo preso il primo, il secondo e il quarto posto con , e . Stiamo pensando di fare ricorso perché il briefing è stato orale ed è stato poco chiaro, anche altri hanno sbagliato e preso penalità: vedremo.


Molto bene, perché abbiamo continuato a vincere. Non ci siamo annichiliti e siamo andati avanti. Anche i nostri superiori giapponesi sono arrivati, ci hanno festeggiato e ci hanno ribadito che dagli errori si impara. Negli ultimi due anni con le due Dakar abbiamo sempre avuto problemi con le moto quando eravamo in testa, quest’anno invece le moto sono andate benissimo, c’è stato invece un errore di valutazione del Team. Sono carico per il 2018. Ci sono le basi per ripartire l’anno prossimo e fare bene, siamo una squadra collaudata e certi errori fanno male, è vero, ma servono.


Durissima. Anche per noi del Team: tutta la squadra segue i piloti durante il percorso, io per esempio ho guidato per sette mila chilometri. Quindi la Dakar è anche la nostra corsa. Sono stati giorni senza respiro. Siamo passati dal caldo incredibile del Paraguay e dell’Argentina con 45 gradi alle piogge della Bolivia con l’acqua che non ci ha mai lasciato e alle temperature rigide dei 4000 mila metri. Abbiamo dormito spesso in tenda e ci siamo ritrovati a volte 20 centimetri d’acqua dentro, e siamo stati costretti a ”riposare” nei furgoni.


Direi di no. Bisogna essere preparati, 12 giorni volano in un attimo e bisogna essere pronti a fatiche e disagi. In due settimane credo di aver dormito forse 2-3 ore a notte, i piloti si alzano intorno alle 3 e mezza o le 4 del mattino e noi con loro. È arduo.


Ci vuole tanto affiatamento tra i Team Member e anche tanta amalgama. Tutta la stagione è finalizzata alla Dakar. È la gara per antonomasia con milioni di spettatori: tutte le gare dell’anno quindi sono di preparazione.


È stata un’esperienza unica. Questa gara non la dimenticherò mai, la ricorderò per quanto è stata difficile e dura, più delle altre. Sono stato colpito molto dalla durezza trovata durante la parte di corsa in Bolivia: un po’ per questo tempo impervio che ci ha perseguitato per cinque giorni con vento e pioggia. Mi hanno colpito però anche i boliviani come popolo: per loro il periodo della Dakar è come una vacanza e per tutto il tempo ci hanno incoraggiato per tutte le strade.

Sono sul circuito dalla mattina alla sera, in condizioni anche difficili, ma sempre con il sorriso, la mano alzata per salutarci e con sacchetti di cioccolatini o caramelle da offrirci. Sono stati un pubblico fantastico. Non scorderò neanche i loro abiti, con colori bellissimi. Ricorderò le bandiere boliviane che sventolavano in tutte le migliaia di chilometri che abbiamo percorso. Tanto colore in mezzo a tanto grigiore di pioggia. Pura magia tra polvere e colori.


Sì, ma siamo carichi già per la prossima. Avevamo fatto nostro un gesto scaramantico, il classico gesto italiano per dire “che vuoi?”. È nato a Capodanno con un gioco in cui ognuno aveva un segno da fare per scherzo: io ho scelto quello e ce lo siamo portati avanti fino alla fine. Ci eravamo promessi che se avessimo vinto saremmo saliti sul podio e il nostro segno di vittoria sarebbe stato quello. Non abbiamo vinto ma sul podio lo abbiamo fatto lo stesso, come per dire “perché ci avete fatto questo? Ci avete penalizzato ma i vincitori morali siamo noi”.