«Nel ’65 piangevo già per il Varese. Il miracolo di Zeman con il Lugano»

Silvio Papini - Riecco il grande cuore di “Papo”: «Il destino dei biancorossi è tornare in A. Glielo auguro»

Silvio Papini. Non serve aggiungere altro, perché a una bandiera basta solo un alito di vento per sventolare alta e orgogliosa.

Un giorno sono andato negli spogliatoi, mi sono presentato e gli ho detto: «Si ricorda quella volta al Franco Ossola…». Lui mi ha risposto: «Io col Pescara ne ho perse poche». «Sì, mister, ma a Varese contro Maran le avete prese», gli ho risposto. E lui: «Ah, è vero». Zeman è così: ci mette tanto a dirti qualcosa, ma quando parla ti lascia comunque di stucco.

Il mister è rimasto lì, continuando a lanciare giovani, anche quando tanti lo avrebbero voluto cacciare; anche quando dalle tribune veniva fuori un certo malumore. Il presidente Angelo Renzetti è andato per la sua strada: ha creduto in lui, e ha vinto.

Il Lugano ha battuto l’altra sera il San Gallo 3-0 davanti a più di seimila spettatori e si è salvato all’ultima giornata, obbligato a vincere, perché con un pareggio sarebbe retrocesso. Invece, a retrocedere è stato un certo Zurigo.

Quello che ha fatto Zeman, quest’anno, ha un solo nome: miracolo. Salvarsi con il Lugano, vale quanto un campionato vinto dal Basilea. Il piccolo Lugano contro le corazzate svizzere.

È da dire, ad onor del vero, che qualche schiaffo, qualche 6-0, tipo contro il Sion, Zdeněk lo ha preso. Ma è andato avanti per la sua strada.

Un’atmosfera particolare, di paura prima e gioia dopo. C’erano tanti personaggi e anche ex Varese come Culina, sugli spalti perché infortunato, anche se quest’anno ha fatto 10 gol; Martino Borghese a vedere il suo Lugano; c’erano Giancarlo Camolese, Galante e Kubilay Türkyılmaz.

Io ho conquistato la promozione in serie A con il Lugano. In quella squadra c’erano Ottmar Hitzfeld e Prato. Era il campionato ’78-’79. Ora Zeman può fare il doppio miracolo: portare il Lugano in Europa League, vincendo la Coppa Svizzera 23 anni dopo l’ultima.

Emozionante. Ho passato 20 anni della mia vita al Franco Ossola: dieci da calciatore, dieci da dirigente. E, se posso, torno sempre allo stadio. Poi, in un’occasione importante come quella, non potevo mancare.

Cose tipo: «Ciao Papo!» e «Papo, perché non torni?». Cose belle, che fanno sempre piacere, insomma. Anche se…

Anche se, nell’ultimo anno, a parte il mio amico Claudio Ferretti, me l’ero sentito dire da pochi. Ma per me è come se non me ne fossi mai andato. Il Varese è casa mia.

Di fare meglio del Varese mio e di Sean Sogliano. Al Varese non posso che augurare di tornare in Serie A.

Sapete, quando Enrico Preziosi prese il Lugano nel 2006 mi chiese di fare il direttore sportivo della squadra. Mi offrì una cifra tra i 130 e i 150mila euro. Una cifra che al Varese, dov’ero, non avrei guadagnato manco in tre anni perché, bene che mi è andata, sono arrivato a 2mila euro al mese. Io rifiutai, perché la maglia del Varese non vale tutti i soldi del mondo. Lo volete un aneddoto sulla Serie A?

In quel periodo, era il ’64-’65 e il Varese era per la prima volta in A, avevo quindici anni. E, assieme a mio cugino, ero andato a Malnate a fare un provino per le giovanili biancorosse. Finito il tutto, chiamarono i numeri dei giocatori che lo avevano superato. Io indossavo la casacca bianca e il numero dieci ma, per un errore, chiamarono il dieci vestito in rosso. Scoppiai in lacrime: per me giocare nel Varese era un sogno, anzi, il sogno. Mio cugino, per fortuna, parlò con l’allenatore, e gli fece presente che io avevo la casacca bianca, così si accorsero dell’errore, e mi chiamarono («Sì, in effetti, prendiamo quello con quel mancino…»). In quel momento mi sentii come se avessi vinto un milione di lire. Come se avessi vinto tutto.