Peggio di così, solo l’anno della retrocessione. Storia (e speranze) di una squadra mai nata

Il commento di Fabio Gandini

La Openjobmetis Varese chiude il secondo peggior girone d’andata della sua storia, roba che – a confronto – i 12 punti del giro di boa 2015/2016 paiono ora un traguardo da invidiare profondamente.

Si gira a quota 8: peggio di così solo nel 2007/2008, anno della seconda, mefitica retrocessione in secondo serie nell’intera epopea biancorossa. All’epoca i punti furono soltanto 6 in 17 giornate (il campionato era a 18 squadre): quella Varese che passò dalla triade Mrsic-Vescovi-Meneghin a Valerio Bianchini era ultima (e in quella posizione rimase fino alla fine) e distanziata di quattro lunghezze dalle penultime (Scafati e Napoli). Un bottino di soli 8 punti ricorre poi altre due volte negli anni cestistici varesini: nel 1999/2000, stagione post scudetto della Stella, con i Roosters anche allora penultimi davanti alla Bipop Carire Reggio Emilia e in compagnia della Muller Verona; nel lontano 1981/1982, campionato a quattordici formazioni e Cagiva dopo tredici giornate a precedere solamente Mestre e Brindisi.

Quello concluso con l’inopinata sconfitta contro la Fiat dell’ex Vitucci è stato il girone d’andata delle illusioni presto svanite: i biancorossi iniziano a Sassari con una prevedibile ma onorevole sconfitta, poi sfatano il tabù Caserta in casa e lottano – pur con un insuccesso a consuntivo- al cospetto della corazzata Milano; arriva la Brindisi del Meo e la vittoria che fa esplodere Masnago viene firmata dall’ultimo sussulto di uno dei simboli negativi di questo disgraziato percorso, Kristjan Kangur. La prodezza dell’estone sul finire dei tempi regolamentari e il supplementare dominato contro i pugliesi diventano una crudele illusione: da lì in poi arrivano 9 tonfi in 11 partite. Botte pesanti, alcune vergognose (Pistoia, Brescia in casa, il derby…), intervallate soltanto dal blitz di Pesaro e dal sorprendente (col senno di poi, purtroppo, un caso…) hurrà casalingo contro Reggio Emilia.

In tale calvario Varese ha cercato di nascere ma non è mai nata: non ha mai trovato un’identità tecnica, dando spesso l’impressione di non avere i mezzi per metter in pratica i dettami impartiti da coach Paolo Moretti; e ha smarrito – strada facendo, martoriata dalle sconfitte in serie – quell’abbozzo di coesione spirituale tra i suoi componenti, diventando organismo caratterizzato da prassi tipo “è colpa sua, non mia”, egoismo e un po’ di in(sano) menefreghismo.

È arrivato Attilio Caja, dopo l’inevitabile esonero di Moretti: la sua costruzione (no, non è una ricostruzione: si ricostruisce per migliorare, si ricostruisce eventualmente dalle macerie, ma non si può ricostruire dal nulla) è coincisa con tre sconfitte. Chi non ha perso la speranza, chi crede in una resurrezione, in queste tre ennesime stazioni del calvario ci ha tuttavia visto un sentiero in leggera salita, non più in precipitosa discesa. Ha visto dei piccoli bagliori di luce in un buio che rimane ancora preponderante.

Venezia: una squadra persa, senza riferimenti (neppure quelli “impraticabili” di Moretti), bloccata dalla paura. Cremona: una squadra malata ma con un briciolo di voglia di lottare, battuta da chi ne ha avuta certamente di più. Torino: una squadra che per 30 minuti ha fatto vedere di essere sulla strada giusta nel tentativo di trovare una dimensione di gioco accettabile e sdoganabile per il suo organico, uccisa dalla mancanza di un colpo di reni finale che sarebbe invece servito come il pane. Qualcosa sta cambiando, e lo dicono anche alcune statistiche: sono aumentati i rimbalzi (da 37 di media a 42) e diminuite le palle perse (da 16 a 13).

Si riparta da qui: da una truppa che difenda, controlli i tabelloni e sprechi pochi palloni. La corsa è lunga e, alla fine, è solo contro se stessi.