Ragazzo d’oro e roccia per l’Armandone Picchi. Difenderà i nostri sogni

Il commento di Max Lodi

L’Armandone Picchi, quando venne a chiudere la carriera a Varese, ne parlò benone. Spartaco, che ragazzo d’oro. Che jolly di difesa. Che roccia di fisico e di temperamento. Helenio Herrera ci aveva visto giusto, a volerlo all’Inter. L’Inter piccola, poi diventata grande. Anzi, “g” maiuscola: Grande. L’Inter costruita da Angelo Moratti e che Italo Allodi faceva venire in ritiro al Palace Hotel di Varese. Qui viveva le vigilie delle partite casalinghe di campionati trionfali, di Coppe dei Campioni (allora si chiamavano così) superlative, di un’epoca che fece presto a trasformarsi in epopea.

Do you remember, amico calciofilo, il fantastico refrain della canzone-formazione più in voga allora? Sarti, Burgnich, Facchetti; Tagnin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso. A latere (ma mica tanto a latere) Domenghini, Bedin, Milani, Landini. Proprio lui, Landini da Terranuova Bracciolini, Toscana, ora celebre per lo stabilimento della maison globale Prada e allora famosa per lui, quando diventò puntello prezioso della Valanga Nerazzurra e fu glorificato dalla passione popolare.

Retroguardista lupesco: anticipo digrignante, contrasto di potenza montagnina, scaltrezza degna dell’antica furbizia delle sue contrade. Impersonò l’umile spirito di servizio: se mi chiamate, rispondo. Il Mago lo chiamò spesso: fai questo e fai quello. Lui faceva, e così bene da mettere in difficoltà l’allenatorissimo. Finì – di partita in partita, di stagione in stagione, d’impresa in impresa – per conquistare il posto da titolare.

Nel frattempo, la sorte gli aveva riservato l’incolpevole dramma di Middlesborough, l’Italia pretenziosa di Fabbri sconfitta 1-0 dal ridolinismo (copyright Valcareggi) della Corea, gol dell’odontotecnico Pak Doo Ik e tutti vergognosamente a casa, accolti da un diluvio di pomodori.

L’incidente di percorso non cambiò la strada professionale di Landini: anzi, sfiorivano gli dei della San Siro baùscia e brillava sempre di più la sua timida stella. Così, senza esagerare. Però d’una bella, affidabile, confortevole luce: quella della normalità di successo. Un po’ simbolica d’anni in cui avveniva l’accorciamento della distanza tra le classi, e quella media diveniva la più frequentata. Landini fu protagonista sportivo della trasformazione, senz’accorgersi d’esserlo. E per questo, tanto più ammirabile. Scortò speranze e sogni di molti, non facendosi quasi mai scartare da nessuno. Gliene siamo ancora grati, con un filo di friggente (non struggente, dài) nostalgia, ch’egli certo comprenderà. Benvenuto tra di noi.