«Un clic e ora siamo una squadra»

Il “gigante bambino” dei Caraibi, Norvel Pelle, racconta se stesso e Varese in questa lunga intervista

Norvel Pelle, per ovvie ragioni anatomiche, non passa inosservato quando passeggia per la città. La gente lo riconosce, lo ferma, lo saluta. Sembra volergli istintivamente bene. Una prova? Giusto il tempo di concludere l’intervista ed un autobus suona il clacson, accostando a bordo strada: l’autista richiama con ampi gesti Norvel, lo fa salire sul mezzo, gli stringe la mano e gli dà una pacca sulla spalla. Lui lascia fare, pacifico e contento, con quel candore sorridente che tradisce – a dispetto della mole – i suoi 24 anni appena compiuti.

Il gigante bambino from Antigua e Barbuda sta diventando grande sotto il Bernascone. Quasi una seconda crescita dopo quella – veloce, precoce, senza reti – che tutti quelli come lui sono costretti a vivere quando lasciano il nido per tentare il volo nel basket. La vita sotto le plance è un rebus: puoi farti planare addirittura in posti come Taiwan o il Libano, dove 211 centimetri tratteggiati alla caraibica sembrano più improbabili di una palma in Groenlandia. Poi ti può far atterrare a Varese e regalarti altri centimetri, stavolta di esperienza, da rivendere a te stesso quando le ali ricominceranno a muoversi verso altri lidi.

Sì, un giorno Norvel si ricorderà di tutto questo. Si ricorderà di una stagione tragica, di un “clic” che tutto cambia e di un allenatore che – al prezzo del sudore – lo ha preso e ha rivoltato il suo gioco come si fa con un calzino. Cambiando lui, i suoi compagni e un destino nero.

Bene, assolutamente. Essere stati consistenti ed aver portato a casa quattro vittorie è molto importante.

Non c’è un segreto, davvero. Abbiamo finalmente fatto un passo avanti come gruppo, abbiamo fatto “clic”, realizzando che solo giocando tutti insieme sarebbero arrivati i risultati. Come poi, effettivamente, sta avvenendo.


Prima Varese era una squadra solo sulla carta: non si assimilava come una squadra, non si muoveva come una squadra. Troppi, per esempio, cercavano di rompere le partite da soli e di portarle a casa con giocate personali. Ora, invece, abbiamo trovato una chimica, un giusto modo per stare insieme. La svolta è stata dopo la pausa del campionato: siamo rientrati tutti con la mente sgombra ed i risultati si sono visti.


Sì, sicuramente: l’inizio è stato difficile, ma il finale sembra promettere bene (sorride).


È vero. Io e Caja ci siamo seduti al tavolo e lui ha completamente stravolto il mio modo di giocare sia a livello difensivo che offensivo. In difesa, all’inizio della stagione cercavo di andare a stoppare su ogni tiro, lasciando magari troppo spazio al mio uomo di competenza. Ora è diverso, sto concentrato sul mio avversario e cerco di stoppare solo quando è possibile: è quello che il coach mi ha chiesto, oltre a stare sempre pronto e presente a rimbalzo. Perché una delle chiavi per lui sono i rimbalzi: ce lo ripete in continuazione.


Con Caja si lavora davvero duramente, e si vede in partita, dove siamo venuti fuori giocando con fisicità. Io ho la mia razione di lavoro extra con “coach Paolo” (Conti ndr), che mi aiuta molto nel gioco sotto canestro.

Il più brutto è stato chiaramente quando continuavamo a perdere e basta, perchè non riuscivamo a trovare una soluzione che fosse una. Il momento migliore, senza ombra di dubbio, è adesso: abbiamo trovato la chiave, (“we clic as a team” dice così).

Non vuoi mai che qualcuno perda il suo lavoro, chiunque sia: un giocatore, un allenatore, un membro dello staff. Non è per forza una sconfitta di noi atleti, però come squadra devi necessariamente guardarti dentro e rivalutare il lavoro che hai fatto fino a quel momento. E quando è l’allenatore a essere cacciato, all’interno dello spogliatoio si pensa: «Non è lui il problema, siamo noi, e dobbiamo fare per forza qualcosa di diverso».

Io amo i miei compagni di squadra. Trascorro il tempo con loro quando siamo fuori dal campo, giocando ai videogames o rilassandomi un po’, specialmente con Eric Maynor.

La città è bella, piccola, quasi una tana. Le persone ed i tifosi sono molto amichevoli e cercano di aiutarmi, perché non so l’italiano. Sono nato ad Antigua e Barbuda, però sono cresciuto in California: casa mia è Long Beach.

È una piccola isola, un posto bellissimo. Mia nonna, alle spalle di casa sua, ha una spiaggia privata: è fantastico. Antigua si può comparare molto alla Jamaica, è simile. Io non ci torno da parecchio tempo, forse dieci anni, perchè quando non sto giocando vado in California, oppure a New York. Però sento costantemente la parte della famiglia che è rimasta lì, mi manca molto. Anche se so che loro sono contenti ed eccitati per quello che sto facendo qui.

Il basket italiano è sicuramente differente rispetto agli altri in cui ho militato. È molto più tecnico, molto più basato sui fondamentali, più fisico. Se lo paragoniamo ai campionati di Taiwan e del Libano, questa è assolutamente una top league.

In Taiwan camminavo per strada e la gente mi guardava in maniera molto strana per via della mia statura. Mentre il Libano sembra una piccola America: consiglio a tutti di andarci perché è un posto favoloso.

Ho ancora due anni di contratto qui, innanzitutto. Poi, chissà: se continuo a lavorare e a giocare come sto facendo ora, tutto può accadere.

Vorrei semplicemente continuare a vincere, continuare a fare quello che stiamo facendo ora: perché fermarci proprio adesso? Solo alla fine vedremo dove saremo arrivati, chi lo sa? Magari conquisteremo i playoff…

So che c’è una forte rivalità perché sono due posti molto vicini tra loro, e so che di queste gare si parla per una stagione intera, soprattutto quando si vincono. Stavolta, prometto, li batteremo.

Entrambe (ride) Però mi piace davvero tanto stoppare e poi guardare negli occhi il mio avversario, per vedere la sua reazione dopo che il suo tiro è finito chissà dove.n