Un Giro forte con i deboli e debole con i forti. Così il movimento italiano pian piano muore

Il commento di Alberto Coriele

Rcs Sport ha diramato la lista delle 22 formazioni che prenderanno parte al prossimo Giro d’Italia, quello del centenario. Si scorre l’elenco e con amarezza si constata l’assenza di due formazioni italiane come la Androni di Gianni Savio (a casa per il secondo consecutivo) e la Nippo Fantini del nostro Ivan Santaromita. Al netto di discorsi campanilistici – chiaramente ci rattrista che Santino non possa correre il Giro – le scelte di Rcs Sport si posizionano a metà

strada tra l’incomprensibile ed il sadico. Al posto di Androni e Nippo sono stati invitati i russi della Gazprom e i polacchi della CCC Sprandi: apprezzabile l’idea di questa globalizzazione del ciclismo, che abbiamo già potuto ammirare nel Mondiale di Doha, corso davanti a quattro cammelli e due dune. Sarà anche una logica sportiva stantia e tradizionalista la nostra, perché conserviamo un barlume di ingenuità nel credere ancora ad un ciclismo che sappia muovere le folle e non i capitali, dei corridori che transitano davanti a casa e vanno a salutare i parenti. Ma l’esclusione dal Giro per Nippo ed Androni è una mazzata che non si può ignorare: il ciclismo è uno sport che vive di sponsorizzazioni e di poco altro, e una vetrina importante e luccicante come quella del Giro da sola mantiene in vita queste squadre. La seconda esclusione di fila dal Giro ha portato il patron Androni a dire addio al ciclismo. Lasciare a casa la Nippo significa non permettere a Damiano Cunego, maglia rosa nel 2004, e a Ivan Santaromita, campione d’Italia 2013, di correre il Giro del centenario. Perché la Gazprom? «È sponsor della Champions League di calcio, ha progetti di crescita importanti anche nel ciclismo», risponde Mauro Vegni, direttore del Giro. Per la Russia il ciclismo è così importante che, al momento, il paese non ospita alcuna corsa internazionale. Perché la CCC Sprandi? «La Polonia è un nuovo mercato ed è molto interessante per il Giro (che, secondo indiscrezioni, partirà proprio da lì, ndr). Dobbiamo guardare anche ad aspetti politici e commerciali, non solo sportivi», risponde sempre Mauro Vegni. Logiche commerciali che calpestano un movimento che pian piano muore. Perché i migliori corridori italiani, Vincenzo Nibali e Fabio Aru, corrono per il Bahrein ed il Kazakhstan. E ci sta, i soldi sono lì ed i corridori prendono scelte personali. Non ci sta invece che sia il Giro, il simbolo del ciclismo nazionale, a chiudere le porte in faccia e a sbeffeggiare una realtà in cui le squadre (recente l’addio della Lampre), le corse ed i corridori sono sempre meno. «Lo stato di crisi del ciclismo italiano non nasce dalle scelte del Giro, ma dal fatto che questo movimento si sia alimentato per anni di un modello sbagliato: “O faccio il Giro o chiudo la squadra”», ha ribadito lo stesso Mauro Vegni, forse con una buona dose di ragione. Ma è vero anche che non può essere il Giro stesso, forte con i deboli e debole con i forti, a voltare le spalle così. Quest’anno comunque ci rivedrete a bordo strada, irriducibili, con una bandierina in mano a tifare un Marcin Białobłocki qualsiasi (ci perdoni, non ha colpe), quando impareremo a pronunciarlo. Perché il Giro è il Giro. E il Giro siamo noi.