«Vernici e pallone, due facce del sogno»

Daniele Capelloni, il maratoneta biancorosso: «Tutte le mattine sveglia alle 6, e via in azienda. Poi 400 chilometri al giorno per allenarmi. Giocare nel Franco Ossola è la mia serie A»

Nel calcio è sempre chi segna a fare notizia ma la stella del Varese non è solo quella di Carmine Marrazzo. Una bandiera biancorossa si chiama Daniele Capelloni: è lui il giocatore che fa più chilometri di tutti in campo. Come lo sappiamo? L’ha certificato scientificamente Ciro Improta, che lo conosce già da qualche anno: «Gli ho messo addosso il Gps in parecchi allenamenti e i suoi risultati sono i migliori perché ha una media di dieci chilometri,

che fa con disinvoltura e senza fatica, come se stesse bevendo un bicchiere d’acqua». In effetti, vederlo correre a Varesello sembra un inno al lavoro: «È un resistente nato – commenta ancora Improta –, un professionista nel senso più alto del termine. Pensate che incomincia la preparazione venti giorni prima del ritiro estivo, per conto suo, e nei periodi di sosta non molla un attimo ma si allena con la stessa costanza di sempre. La sera che precede le partite osserva una dieta particolare ed è già concentratissimo». Capelloni si sveglia alle 6 perché ha un lavoro e tutti i giorni percorre un lungo tragitto per raggiungere Varese dal suo paese, Isorella, che si trova nel bresciano: «E al campo – sottolinea Improta – ha sempre il sorriso sulle labbra. È uno che non si lamenta mai: il calcio ce l’ha nel sangue».

In macchina ne faccio 180 per venire a Varese e 180 per tornare a casa, a Isorella.

L’ho sempre fatta durante la mia carriera, escludendo il periodo che avevo passato nella Primavera dell’Inter, quando mi fermavo a Cormano. Ho giocato in squadre che distavano anche cento chilometri da casa ma allungare considerevolmente la strada non mi pesa perché sono al Varese: faccio 360 chilometri per inseguire un sogno. L’estate scorsa, dopo l’esperienza nella Pro Sesto, avevo pensato, per la verità, di avvicinarmi a Isorella, per conciliare al meglio il calcio con l’attività lavorativa, ma quando Melosi mi ha detto che c’era l’opportunità di vestire la maglia biancorossa non potevo di certo lasciarmela sfuggire. Mi sono adattato, organizzando al meglio la giornata e posso dire che fare il pendolare non mi pesa assolutamente.

Alla mattina vado a visitare i clienti dell’azienda fondata da mio padre negli anni Ottanta: sono un commerciale e vendo le sue vernici che, fra l’altro, sono servite per colorare l’ormai famosa maschera di Marrazzo, le sue scarpe o una parte degli spogliatoi del Franco Ossola. Poi parto e mi fermo in autogrill per mangiare un panino: a Seriate arriva Dimitri Bianchi, preparatore dei portieri che abita a Lovere, in provincia di Bergamo, e facciamo il viaggio insieme. Il venerdì sera rimango a Varese e dormo da Marrazzo.

Otto anni fa: ho deciso di dedicarmici anima e corpo al lavoro quando ho capito che non avrei potuto raggiungere il calcio sognato da bambino.

Di avere anch’io una figurina Panini con il mio nome o di giocare in stadi come il Franco Ossola. A 16 anni militavo nel Montichiari, in C2, e mi aveva voluto l’Inter in Primavera. Poi una serie di infortuni mi ha fatto capire che difficilmente sarei arrivato in B e mi sono buttato a capofitto nel lavoro, scegliendo di stare nei dilettanti. Mi sono ritagliato una discreta carriera in Serie D, in Veneto, nel mantovano e nel bresciano, dove ho conosciuto Melosi, a Darfo Boario. Posso dirle che sono contento così.

Quest’anno ho realizzato un sogno: perché al Franco Ossola ci gioco tutte le domeniche, davanti a un pubblico da Serie B. L’emozione di stare davanti a tremila persone non si può descrivere a parole: bisogna provarla.

È vero che nel calcio ci sono tante storie come quella di Neto. Fabio Grosso è balzato, in quattro anni, dalla Serie D al Mondiale. Kevin Lasagna giocava con me i tornei estivi, fino a pochi anni fa, e poi si è conquistato la Serie A con il Carpi. Io adesso sto provando a giocare nel Varese con cui spero di salire il più in alto possibile: la B in biancorosso sarebbe il sogno di una vita.

So che la gente mi apprezza e mi fa piacere ma mi farebbe ancora più piacere se i tifosi mi apprezzassero perché sono una brava persona. I giocatori vanno e vengono, ma resta il ricordo dell’uomo…

Certo, anche perché rischio di stare di più con i clienti o con i compagni che non con i miei genitori o con la mia ragazza: lei si chiama Roberta e viene sempre a vedermi nella macchinata di famiglia. Ci sono anche mio fratello Enrico, che gioca in Seconda categoria, e mia sorella Mirella: fa la calciatrice ed è stata pure a Verona, in Serie A.

Non solo lui ma anche altri due che avrebbero poi vestito la maglia biancorossa: il portiere Giacomo Bindi e il centrocampista Luca Palazzo. Ci allenava Daniele Bernazzani ed era la stagione 2004-2005.

Prima che giocatori siamo uomini e lo spogliatoio si è unito in modo incredibile. Merito dello staff tecnico che ci ha reso una cosa unica. In un ambiente così sei obbligato a fare andare bene le cose. Il primo giorno di allenamenti ho incontrato Gheller, che ha alle spalle più di cinquecento partite da professionista, insieme a Luoni e Gazo, anche loro reduci da tante stagioni di livello: mi hanno fatto sentire alla loro altezza, anche se io sono sempre stato nei dilettanti. Il calcio insegna che non sono i più forti a vincere ma le squadre in cui non ci sono né creste né galletti. Al Varese siamo tutti uguali e il nostro segreto è l’unità d’intenti che ci fa dare il 150 per cento anche per i compagni.

Guardando un tag su Facebook in cui Carmine era diventato «Carminetor». La maschera l’ho pitturata io.