«Io, un terrone che nella maglia ha trovato il suo futuro»

Vittorio Pocorobba, stella della Pro Patria negli Anni 80, è ora un bustocco doc. «Questa è la mia casa»

È arrivato a Busto Arsizio per giocare nella Pro Patria (stagione 1984/85), ma a stregarlo sono stati non solo i colori biancoblù, ma la città stessa tanto da diventarne un bustocco a tutto tondo. Smessa fisicamente la maglia biancoblù, , quei colori se li è sempre sentiti dentro e con molto pudore non li ha mai baciati per ingraziarsi qualcuno. L’affetto lo ha dimostrato coi fatti: a Busto ha deciso di scommettere sulla sua vita, fermandosi e mettendo su famiglia. Animo pugnace, cattivo il giusto, quanto simpatico e affabile, Vittorio ha subito fatto suo lo spirito tigrotto ed immediatamente è entrato nel cuore dei tifosi e da lì non è più uscito.

«Io che sono un terrone ho più presenze (163) con la Pro Patria di qualche giocatore bustocco», butta lì con un sorriso misto ad una smorfia che sa di polemica. Pocorobba ha origini trapanesi, cresciuto in una famiglia di calciatori con «mio fratello Giuseppe che ha giocato nel Trapani assieme a Firicano», ma è stata l’aria del Nord ad irrobustirlo dentro quando andò alle giovanili della Juve. «Una scuola di vita ed erano anche tempi in cui vigeva anche un po’ di nonnismo. Noi della Primavera ci allenavamo con la prima squadra e ricordo che Furino mi diceva di lavargli ed ingrassargli gli scarpini. Però Scirea e Capello si fermavano a fine allenamento a darci consigli. Capello era già un allenatore allora».

Una leggenda racconta che Vittorio sia arrivato a Busto con una macchina che perdeva i pezzi. Grassa risata: «Non è vero. Ero arrivato con una Golf bianca. Sì, forse la Uno che presi dopo aveva qualche problemino». I maligni assicurano che il paraurti fosse legato con un filo di ferro. «Ma dicevano così perché mi volevano bene ed in particolare vorrei citare una persona, il massaggiatore Francesco Varliero: un grande».

Arrivava dal Cattolica ed a «Busto mi aveva portato Ossola ed il contratto lo feci con l’allora dirigente Lobi. Quando mi proposero la Pro Patria fui felicissimo perché la Pro Patria aveva un nome».

La gente, come detto, lo ha subito amato . «Beh, in campo davo tutto e poi come stopper mi facevo valere, allora si giocava a uomo. E poi, ragazzi, con Carnio, Renzi e Grandi lì non passava nessuno. Eravamo quattro che mettevano subito le cose in chiaro con gli avversari. A me capitava sempre il più forte attaccante da marcare e lì erano botte a te e botte a me, quando però mi capitava qualche novellino gli facevo la paternale di girare al largo. E lì capivi se aveva o meno gli attributi. Ed un’altra cosa: sapevo fare anche gol. Ne feci uno all’Aosta da trenta metri, ed era voluto. Ma il migliore è stato quello di testa con la Pro Vercelli, alla Bettega, a due minuti dalla fine e vincemmo».

E dalla tribuna dello Speroni si alzava spesso un “dai Vittorio” da voce femminile. «La Maria, una signora simpaticissima. Era innamorata di me».

Sapeva farsi voler bene Vittorio «sempre in maniera onesta e non da ruffiano», e giù un’altra risata, così da avviare un’attività dopo il pallone. Racconta: «Mi aiutò Marco Colombo, figlio dell’ex presidente della Pro Patria, mi introdusse nel mondo alimentare e divenni agente di commercio anche di marche importanti di salumi e di alimenti. E con tutta la mia famiglia mi fermai a Busto. Stavamo e stiamo bene».

Avrebbe voluto avere anche un ruolo attivo nel calcio («non da allenatore perché sono troppo diretto»). Ci ha provato in collaborazione con «Salvatore Asmini e mi sarebbe piaciuto fare l’osservatore, però se ti leghi ad una personaggio segui il suo salire o scendere. Sono stati comunque anni bellissimi e molto istruttivi perché Salvatore sa molto di calcio. Al tempo era alla Sampdoria. Mi spiace che sia finita e che si siano interrotti anche i rapporti con Asmini». Ma da bravo giocatore Pocorobba sa che dopo una sconfitta arriva la vittoria. E lui come si chiama? Vittorio.