«Addio, caro Orco». L’amore di Annie Vivanti

Una forte passione legò la poetessa al maturo Giosuè Carducci. Il saluto a fine estate a Gavirate

«Io non so scrivere di Giosuè Carducci come del grande Poeta d’Italia», scrisse l’affascinante poetessa Annie Vivanti (1866-1942) che con il Vate italiano intrecciò un legame amoroso che andò in scena persino a Gavirate. «Egli è per me l’amico adorato, l’ideale della mia sognante fanciullezza, il secondo padre della mia orfana gioventù. E la sua mano mi sorresse ed innalzò nella turbolenta primavera di mia vita».

Figlia, ultima di sette fratelli, di Anselmo Vivanti, patriota mantovano di origine ebraica, e di Anna Lindau scrittrice tedesca, sorella dei celebri letterati Paul e Rudolph, d’importante casata germanica, Annie nacque il 7 aprile 1866 nel sobborgo londinese di Norwood, dove il padre, seguace degli ideali mazziniani, aveva trovato rifugio. Con la prematura morte della madre, è mandata in collegio in Svizzera e, dopo l’incontro con la sua matrigna, fugge di casa e, per vivere, è cantante in strada.

La leggenda vuole che la giovanissima scrittrice “timida e tremante” non aveva ancora diciotto anni, «quando si presentò allo scrittoio del temibile editore Treves di Milano – registra la studiosa Anna Folli in “Addio caro orco. Lettere e ricordi (1889-1906), Feltrinelli – col rotolo dei suoi versi legato da un nastro azzurro. L’uomo d’affari rise – la poesia non rende – ma vedendola andar via piccola e triste le suggerì di procurarsi una prefazione di Giosuè

Carducci». L’incontro letterario, che avvenne a casa Carducci, si trasformò ben presto in qualcosa di più profondo e sentimentale; Annie Vivanti chiamava Carducci “l’Orco” e pare che quel soprannome piacesse moltissimo al poeta delle “Odi Barbare”. «Carducci, colla sua irta barba grigia e il cipiglio veramente da Orco sotto al suo cappello alla Buffalo Bill» lo descrive ancora la Vivanti in appendice al prezioso volume, del 1951, di Pietro Pancrazi, “Un amoroso incontro della fine Ottocento”, Le Monnier. Così, ricordando che «la fortuna aiuta gli audaci», la giovanissima poetessa ottiene il “passaporto” carducciano alla notorietà e al mondo delle lettere, iniziando così la sua fortunata, anche se chiacchierata, carriera di scrittrice. Il 12 dicembre del 1889, Annie Vivanti abbandona Bologna e si rifugia presso il fratello Italo che a Gavirate è medico condotto e che occupa un modestissimo appartamento vicino al Municipio, leggendo, per lunghe ore, gazzette e libri.

Giosuè Carducci, che pochi anni più tardi riceverà il premio Nobel, nel luglio del 1890, arriva a Gavirate in visita alla sua “Annie”: come richiama il titolo dedicato a lei della celebre poesia a lei dedicata: «Mentre egli veniva a vedermi, una vecchietta gli aveva dato un ramoscello di giacinto azzurro, e con questo egli venne a battere alla mia porta. Quando gli fu aperto, egli entrò, e senza parlarmi, gesticolava vagamente con il glauco fiore come battendo il tempo a qualche suo ritmico pensiero, andò a sedersi al pianoforte chiuso, prese un foglietto di carta, e scrisse. Compose le sei brevi strofe sempre battendo col fiore il ritmo, e quasi cantando le parole tra sé. Scrisse lentamente, deliberatamente, senza mai smettere né esitare, nella bella scrittura di cui è tanto orgoglioso». Gavirate si ricorda ancora, a distanza di oltre un secolo, della villeggiatura del Carducci presso i Vivanti, ai tempi del sindaco De Ambrosis, quando i due innamorati si recavano al Caffè Veniani, a gustare i famosi “brutti e buoni”, ideati e creati da Costantino Veniani, forse in compagnia dell’amico Giuseppe Verdi. Come tutte le grandi storie d’amore anche quell’amoroso incontro fra Carducci e la Vivanti finì e, con la fine dell’estate, anche il poeta dovette tornare a Bologna. Le parole della scrittrice in “L’apollinea fiera”, paiono quelle della fine di un romanzo d’amore: «Lo vedo ancora alla partenza, seduto in carrozza – Ciocca già a cassetta – guardarmi con quegli occhi vividi e sempre un poco corrucciati sotto l’ombra del grande feltro. “Addio” mi dice, alzando il cappello e scoprendo le grigie chiome. “Addio, caro Orco.” E soggiungo: “Vi ringrazio di essere stato così paziente e così buono con me”».