Enrico Berlinguer il vero comunista

Cos’è stato Enrico Berlinguer lo capisci guardando gli occhi di chi c’era. Gli stessi occhi che, trent’anni più tardi, si fanno lucidi davanti alle immagini drammatiche dell’ultimo comizio di Padova.

E mentre la voce del segretario arranca, le mani infilano e tolgono nervosamente gli occhiali, il fazzoletto bianco passa sulla bocca, osservano tristi, scuotono la testa e sembrano sperare che tutto si fermi. Che l’epilogo, almeno nella finzione cinematografica, possa essere diverso.

Eppure il documentario di Walter Veltroni “Quando c’era Berlinguer”, proiettato venerdì sera alla Festa democratica del Borgorino, procede inesorabile verso la fine. La fine di un uomo che per molti coincide con la conclusione della storia del Partito comunista italiano.

«Nonostante l’avesse colpito un ictus, ha deciso istintivamente di continuare», ha spiegato il regista introducendo il film, «in quel gesto c’è il suo ultimo messaggio: se avesse smesso di parlare avrebbe fatto prevalere sé stesso sugli altri».

Tenere duro, finire di incitare i militanti ad andare casa per casa a caccia dei voti per le elezioni europee che avrebbero fatto del Pci il primo partito, «è stato un modo per corrispondere a quello che è stato il senso della sua esistenza». Perché «stare dalla parte degli altri è una delle cose più belle che capitino durante la vita».

Realizzato cucendo interviste ai protagonisti della politica e del giornalismo ad immagini di repertorio, dai comizi più accesi alle fumose tribune politiche negli studi della Rai, il documentario girato dall’ex sindaco di Roma è un racconto dell’uomo pubblico, del politico che ha saputo cambiare pelle al Pci precorrendo i tempi.

Berlinguer è stato l’uomo che ha parlato di questione morale dieci anni prima che le indagini di Tangentopoli dimostrassero che aveva ragione. Che predicava una politica di austerità prima che la peggiore crisi economica del dopoguerra la mettesse al primo posto dell’agenda politica. Che cercava il dialogo ed il consenso anche al di là dell’elettorato comunista trent’anni prima che ci provasse lo stesso Veltroni e ci riuscisse Matteo Renzi.

Solo nella testimonianza della figlia Bianca, oggi direttrice del Tg3, e di Alberto Menichelli, uno degli uomini della scorta, fa capolino il Berlinguer privato. La realtà è che il documentario è un film sulla memoria, che attraverso la storia del segretario del Pci racconta anche quella di uno dei decenni più travagliati della storia d’Italia.

«La memoria va coltivata. In Blade Runner il replicante soffre perché non ha memoria», racconta in una delle prime scene Marcello Mastroianni. L’esercizio di memoria di questa pellicola è dedicato ai giovani con i quali si apre il film.

E che alla domanda su chi fosse Berlinguer rispondono nei modi più assurdi: chi dice un commissario, chi un francese, chi il presidente della Corea. È a loro che Veltroni ricorda che si tratta del leader capace di «prendere un partito del 25%, che è sempre stato all’opposizione, e di portarlo in tre anni al 34% e ad un passo dal governo».

Capace di «assumere nei confronti del socialismo reale una posizione di vera autonomia», che quasi gli costò la vita nel 1973 a Sofia, quando un camion militare investì l’auto sulla quale viaggiava, uccidendo l’interprete e ferendo gravemente l’autista.

Attraverso Berlinguer, il regista racconta le ragioni del compromesso storico, l’accordo con la Dc che gli ha attirato l’accusa di essere un riformista. E che mise le armi nelle mani folli dei terroristi delle Brigate Rosse, come ammette uno dei fondatori Alberto Franceschini, intervistato da Veltroni.

Con la testimonianza agghiacciante della figlia Bianca: «ci disse che se fosse capitato a lui di essere rapito, non avrebbe voluto una trattativa. E che se anche dalla prigione del popolo ci avesse chiesto di dialogare con i terroristi, avremmo dovuto tenere conto della volontà espressa in quel momento». Ovvero, nessuna trattativa.

Parole dolorose, come di espressione di dolore sono pieni i volti delle migliaia di persone che parteciparono ai funerali. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini che rende omaggio tenendo le mani sulla bara, una donna che grida “Enrico, Enrico”, un uomo anziano piegato in due, una mano sul volto a contenere le lacrime.

Il pugno chiuso alzato di un giovane a petto nudo arrampicato sul cornicione di un palazzo, lo stesso pugno agitato da un’anziana donna. Che più che un saluto al compagno segretario sembra quasi un incitamento ad andare avanti sulla strada che Berlinguer ha indicato.

Una strada che Veltroni racconta con una metafora, con le immagini del primo comizio in videoconferenza, con il segretario che loda le «nuove tecnologie» come fonte di «progresso per i popoli». E lo fa di fronte alla platea dello stesso partito che a metà degli anni Settanta votò contro l’introduzione del colore nelle trasmissioni televisive. Ecco, il film racconta un Berlinguer che ha portato anche la politica fuori dal bianco e nero. Trent’anni prima che qualcuno pensasse che un’alternativa fosse anche solo possibile.

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