Il genio della Guatelli tra timidezza e allegria

Luciana Guatelli, la poetessa varesina discepola di Piero Chiara, è stata inclusa nell’antologia “Quarta generazione”

Aveva solo diciannove anni Luciana Guatelli quando pubblicò il suo primo volume di poesie, dal titolo “Preludio”, edito dalla tipografia Moroni di Varese, nel 1946. Si trattava di un volume di 60 liriche senza alcun indice, sobrio ed essenziale. Come la poetessa che si librava in un cielo poetico in cui le donne ancora faticavano ad affermarsi.

Come apprendiamo dalla Prefazione firmata dalla studiosa Serena Contini nel volume di Luciana Guatelli, edito da Nem, “Il fuoco nascosto”, Luciana, nata a Varese nel 1927, si iscrisse nel ’45 alla Facoltà di Lettere Classiche di Milano, dove ebbe come professore d’Estetica, l’importante filosofo della Scuola di Milano Antonio Banfi.

Nel 1947 la seconda opera poetica, più matura e destinata a raccogliere l’elogio della critica: “S’inazzurra la costa”. Fu lo stesso Piero Chiara, amico e legato sentimentalmente alla Guatelli a sottolinearne la maturità espressiva, in un articolo su “L’Italia” e in una lettera all’amico poeta Vittorio Sereni.

Scrive Chiara: «Forse il senso di questo libro è proprio qui, nel superamento di una posizione facile e quasi sicura, raggiunta d’istinto e tenuta con l’avidità dell’adolescenza. Questo superamento può dirsi avvenuto ed ha forse in sé la giustificazione di quella che può essere sembrata una fretta di riporre il proprio nome, che è invece l’urgenza nell’uscire dalla domestica stanza dei sogni poetici d’ogni fanciulla, per iniziare il costoso tirocinio dell’arte».

Ma com’era questa stanza da cui la poetessa, secondo Chiara, avere urgenza d’uscire da giovane? La Guatelli, una volta sposata con Aldo Battistelli nel 1955 (quasi contemporaneamente Chiara iniziò il suo legame con Mimma Buzzetti) solitamente scriveva in tinello, dove un piccolo scrittoio, a ribaltina sempre aperta, custodiva i libri e un quaderno.

Difficilmente, ricorda la figlia Licia, sua madre parlava delle cose che scriveva, le considerava sempre prime prove. «Era giustamente gelosa dei suoi spazi – sottolinea Licia – scriveva a mano, poi faceva leggere le poesie a mio padre a cui chiedeva le sensazioni e, quando era sicura, batteva il tutto su una macchina da scrivere tedesca, con un coperchio di bachelite, anni 50, di un verde militare».

Giornalista per quotidiani quali “L’Italia” e “La Prealpina”, “Il Contemporaneo”, la poetessa venne inclusa, grazie all’intercessione del Chiara, nell’antologia “Quarta generazione” curata dallo stesso Chiara e da Luciano Erba per la casa editrice Magenta diretta da Bruno Conti (e ripubblicata da Nem).

Nonostante i loro legami sentimentali fossero sciolti da tempo, Chiara esercitò sempre una forte influenza sulla poetessa, come fu lei stessa a confessare: «Chiara era per me un giudice molto severo e lo temevo. Gli facevo pervenire le mie poesie quasi vergognandomene, come di un misfatto. Strappavo senza esitazione quelle di cui lo vedevo anche soltanto poco persuaso e conservavo le altre, pubblicate poi da Rebellato nel ’60 col titolo “La noia della verità”».

La poetessa è stata strappata anzitempo alla vita nel 1983, lasciandoci opere da riscoprire e su cui riflettere, come “Il brivido del merlo”, una delle sue raccolte più felici, un inno a quella che «si chiama allegramente vita», «saltellante alfabeto d’allegria», «la vita pulsante, in antitesi ad una realtà che è sempre più conformista e banale nelle sue forme più appariscenti». Una banalità che sembra davvero quella di oggi a distanza di quasi quarant’anni, da cui secondo l’elegante poetessa varesina, «abbiamo il dovere di uscire se vogliamo essere davvero uomini, veramente creature».