Il grande poeta dialettale che amava il nostro vino

Proprio il nettare divino è al centro di molte composizioni del suo romanticismo milanese

Amava il vino prodotto dalla nostra provincia, il celebre poeta dialettale milanese vissuto sotto la dominazione asburgica, della “Ninetta del Verzee”, Carlo Porta (Milano, 1775 – 1821) e lo elogiava, in tenzone con il Tocai e lo Champagne, intrugli forestieri a suo avviso, rispetto al vino schietto e sincero delle nostre campagne, adatto allo stomaco di un buon milanese.

È dunque un elogio del “vin nostran” quello di Porta, come rivela Sergio Redaelli nel volume, fresco di stampa, “Varese Terra da Vino”, Macchione editore.

E il vino diventa così protagonista di alcune gustose pagine del romanticismo milanese del Porta, così particolari come la sua opera, che aveva raccolto critiche illustri, come quella di Giordani, che considerava la poesia dialettale un esempio deleterio di particolarismo, da superare nella “pratica della comune lingua nazionale”.

Lo stesso studioso e critico letterario Dante Isella considerava “eccezionale” la personalità di Carlo Porta, in grado di “schiacciare sotto di sé, degradandolo a un ruolo più o meno passivo, di allievo o imitatore” qualunque altro poeta che volesse cimentarsi in poesia dialettale milanese. Del resto, ben prima di Isella, anche lo scrittore francese Stendhal, che molto amava il nostro territorio, ammirava la poesia portiana. E il ruolo di Carlo Porta era già centrale come testimonia il cenacolo di intellettuali lombardi che il letterato meneghino aveva raccolto attorno a sé,

tra cui Berchet, Grossi, Visconti. Un corpus letterario quello di Porta- su cui intervenne la censura, postuma e moralistica, del vescovo Luigi Tosi – che ebbe inizio, nel 1792, con “El lavapiatt del Meneghin ch’è mort” e, intorno al 1804, con la popolare versione-travestimento in milanese dell’Inferno dantesco e che proseguì, con risultati straordinari – che lo hanno consacrato insieme a Giuseppe Gioacchino Belli, sull’Olimpo della letteratura del Romanticismo -, come “On miracol”, “La nomina del cappellan”, “I desgrazi de Giovannin Bongee”, “La Ninetta del Verzee” e “El lament de Marchionn di gamb avert”. Per quanto riguarda il vino, il giornalista Sergio Redaelli, all’interno del “Brindes de Meneghin a l’ostaria”, scritto per l’entrata in Milano di Sua Maestà Frnacesco I in compagnia della moglie Maria Luisa, ha trovato, con sensibilità finissima, nel testo, i discorsi e i riferimenti enologici al nostro territorio, confrontati con i più famosi vini europei. «Il Porta ovviamente non li vede di buon occhio e contrappone ad essi – spiega Redaelli nel libro – nel gioco letterario-politico-enologico i vini di Canegrate presso Legnano, un tempo feudo dei Visconti di Modrone e il “vinett savorii, limped, luster e s’cett che se catta suj ronch del Gergnett”, una località brianzola feudo dei Mellerio e dei Somaglia. Insomma, sembra suggerire il Porta, sempre meglio i notabili nostrani di quelli stranieri». La mappatura enologica prosegue, illustra Redaelli, «su questa falsariga passando in rassegna i vigneti di tutto l’arco delle Prealpi. Ecco il vino limpido e sodo di Angera, quello brillante e sugoso di Castano, il magnifico vino di Omate, quelli mostosi, puliti e schietti di Mombello, Cassano, Desio, Magenta, Arlate e Varese». Leggere l’originale in milanese è senz’altro uno straordinario viaggio linguistico nella guizzante e simpatica lingua del Porta in cui si mescolano i nomi musicali e familiari dei nostri paesi varesini.

“…vorrev mettegh lì tucc in spallera i nost scabbi, scialos e baffios, quell

bell limped e sodo d’Angera, quell de Casten brillant e giusos, quij grazios – de la Santa e d’Osnagh quell magnifegh de Omaa, de Buragh, quell de

Vaver posaa e sostanzios, quell sinzer e piccant de Casal, quij cordial – de

Canonega e Oren, quij mostos – nett e s’cett e salaa de Suigh, de Biasson,

de Casaa, de Bust piccol, Buscaa, Parabiagh, de Mombell, de Cassan,

Noeuva e Des, de Maggenta, de Arlaa, de Vares e olter milla million – de

vin bon, che s’el riva a saggiaj el Patron, nol ne bev mai pù on gott forestee;

fors el loda, chi sa, el cantinee e fors’anca el le ciamma e el ghe ordenna

de inviaghen quaj bonza a Vienna”.

“…vorrei metterli tutti in mostra i nostri vini, generosi e coi baffi, quello

bello limpido e sodo d’Angera, quello di Castano brillante e sugoso, quelli

graziosi della Santa e di Osnago, quello magnifico di Omate, di Burago,

quello di Vaprio posato e sostanzioso, quello sincero e piccante di Casale,

quelli cordiali – di Canonica e Oreno, quelli mostosi – netti e schietti e

saporiti di Sovico, di Biassono, di Casate, di Busto piccolo, Buscate, Parabiago,

di Mombello, di Cassano, Nova e Desio, di Magenta, di Arlate,

di Varese e altri mille milioni – di vini buoni, che se arriva ad assaggiarli il

Padrone, non ne beve mai più un goccio forestiero; forse loda, chi sa, il

cantiniere e forse anche lo chiama e gli ordina di inviargliene qualche

carro-botte a Vienna”.