La vita come un’opera d’arte. Sì, Freddie canterà per sempre

Il 24 novembre 1991 si spegneva la voce più incredibile del pop. Che consegnò i Queen alla leggenda

Le scarpette dell’Adidas. La mezza asta del microfono. La canotta bianca. Il mantello con l’ermellino e la corona. E quella mossa: braccio alzato al cielo, testa china, labbra contratte. Si chiamava quando nacque nel 1946 nell’esotica Zanzibar. Era per il mondo intero quando si spense a Londra il 24 novembre 1991 divorato dall’Aids.

E forse sì, a pensarci bene non ha inventato niente. E insieme ai Queen non ha stravolto a livello sonico la storia della musica. Non scoprirono niente, in fondo. Nè un genere musicale. Nè suoni nuovi. Non scrissero testi rivoluzionari o manifesti generazionali.

Eppure.

Eppure riempirono stadi, parchi, arene all’inverosimile. Eppure sconvolsero il loro pubblico solo grazie a lui, Freddie. Al suo essere una star innata, una stella dentro. E a quella voce. Unica. Irripetibile. Mai sentita prima, mai risentita dopo.

Eppure la generazione che oggi piange maggiormente la scomparsa di Freddie Mercury è quella di chi ricorda sfumatamente il giorno della sua morte: eravamo bambini, ma saremmo diventati tutti ragazzini che nel walkman (sì, nel walkman) ascoltavano i Queen. Ragazzini che hanno imparato l’inglese grazie a quei testi semplici ma proprio per questo immediati. Che ascoltavano quel gruppo perché faceva musica fantastica e sapeva miscelare senza mai una sbavatura generi diversi, che riuscivano così ad arrivare a tutti.

Non inventò niente, forse, Freddie. Ma fu “semplicemente” il più grande di tutti. Il più prorompente, coinvolgente e completo frontman di tutti i tempi.

Ed è un dato di fatto che oggi, a distanza di 26 anni, non è ancora nato al mondo un altro capace di eguagliarlo. Perché Freddie fu un’icona vivente, di tante cose, e lo è ancora saldamente. Perché Mercury al mondo insegnò tanto: dal fatto che l’amore non conosce etichette al saper trasformare la propria vita in uno spettacolo, anche mentre stai morendo di Aids. Come cantò senza maschere nell’ultimo disco che uscì pochi mesi prima della sua scomparsa, in quella The Show Must Go On in cui ti sussurra in faccia che «il mio cuore si sta spezzando, il mio trucco si sta squagliando ma il mio sorriso non si incrina».

E i Queen erano Freddie Mercury, poche balle. Non perché May, Deacon e Taylor fossero tre cialtroni, anzi. Erano tre moschettieri tecnicamente fenomenali che insieme formavano un’amalgama potente e sempre perfetta. Ma a fare la differenza fu, era, è e sarà sempre e solo lui. Freddie. I Queen erano Freddie e Freddie era i Queen. Ci provò a fare il solista, ma alla fine tornò. Tornò e quell’ultimo album, uscito postumo, forse davvero era stato fatto in paradiso, Made In Heaven.

Cosa resta di Freddie Mercury a 26 anni della sua morte? Ancora tutto. Ed è stata questa la sua vera rivoluzione: aver sublimato il concetto di musica “pop”, averlo declinato al senso più universale esistente. Le canzoni dei Queen, le sue canzoni, le sanno tutti. Bohemian Rapsody non si schioderà mai dalle classifiche dei brani più belli del secolo, del millennio, della storia. Il ritornello di We Will Rock You ha invaso i luoghi più nazionalpopolari esistenti: le curve dei tifosi. Con Innuendo, forse il capolavoro assoluto, sono arrivati in tutte le case, in tutte le orecchie, in sei minuti e mezzo di canzone tutti i generi musicali del mondo in un colpo solo.

Pulivano un salotto vestiti da donne nel video di I Want To Break Free eppure la mamma non ci ha mai chiesto di cambiare canale. Freddie non nascondeva la sua omosessualità, ma seppe trasformare anch’essa in uno show sublime. Senza fronzoli, senza provocazioni, senza vergogna. Esagerando, a volte, ma sempre in nome dello spettacolo e mai della sguaiatezza. Freddie morì di Aids e la sua preoccupazione fino all’ultimo fu solo quella di non spaventare nessuno con quello spettro che iniziava a fare tragicamente capolino nel mondo.

No, forse i Queen non avranno cambiato la storia della musica. Ma Freddie ha cambiato la storia, e basta. Semplicemente vivendoci dentro e facendolo con onestà. Senza sbraitare o sbracare, bensì gorgheggiando e sussurrando con la voce di un dio. Quella voce che ancora oggi smuove il cuore e lo stomaco. Comunque soffi il vento.