A Varese si impara a convivere con l’autismo

Oltre 500 persone provenienti da tutta Italia al congresso della Fondazione Piatti e Anffas

Di autismo non si muore; con l’autismo, però, bisogna convivere. Ma come? Quale sarà il futuro di bambini a cui è stato diagnosticato il disturbo dello spettro autistico? Come fare a migliorare la loro vita?

Ieri oltre 500 persone provenienti da tutta Italia, in gran parte genitori di figli autistici, hanno affollato il De Filippi per partecipare alla giornata di studi «Autismo: parlano i genitori» organizzata da Fondazione Piatti e Anffas Varese. Un momento importante per discutere di una disabilità intellettiva e relazionale che si stima interessare una persona su 88 (diagnosi più puntuali hanno reso l’autismo 3-4 volte più frequente rispetto a 30 anni fa), ma di cui al momento non si conoscono le cause e di cui non c’è una terapia di guarigione.

In un contesto privo di dati certi, dare la parola ai genitori significa infatti sia ascoltarne i bisogni che provare a darne risposta.

La mattinata si è aperta illustrando i dati raccolti attraverso un’indagine on-line svolta da Fondazione Piatti e Anffas nell’arco di quattro mesi, a cui hanno aderito 89 persone, con una prevalenza di abitanti del nord (64 per cento del campione) di età compresa tra i 31 e 50 anni (50 per cento del campione). Il 25 per cento di loro ha dichiarato d’avere figli di età compresa tra gli 0 e i 5 anni; il 16 per cento tra i 16 e i 20 anni, segno che le fasi della vita dei figli vissute con più apprensione dai genitori sono la prima infanzia e il passaggio all’età adulta. Il questionario lasciava la possibilità di porre domande mirate, che nella maggior parte dei casi hanno riguardato gli interventi di riabilitazione, il 24 per cento la qualità della vita.

Moltissime persone si sono dichiarate preoccupate per il futuro lavorativo dei loro figli, tanto più che molte aziende preferiscono prendere sanzioni piuttosto che assumere disabili.

«La spinta alla ricerca dovrebbe puntare a trattamenti e percorsi di “abilitazione” che possano essere ponderati con indicatori di qualità della vita – ha spiegato Michele Imperiali, direttore generale di Fondazione Piatti -. Le famiglie lasciate sole possono incappare in professionisti che pensano di avere la verità in tasca e che affrontano i disturbi dello spettro autistico proponendo un determinato metodo di riabilitazione piuttosto che un altro. Noi, invece, crediamo che la presa in carico del ragazzo debba avvenire insieme ai genitori, costruendo un percorso mirato sulla persona, con il continuo confronto tra famiglia e operatori. In questo modo, se sbaglieremo, lo faremo insieme».

Per quanto riguarda la qualità della vita, la Fondazione Piatti propone il modello «Come se», che consiste nel ricreare ambienti di vita di tutti i giorni e farli diventare abitudine per bambini e ragazzi autistici, facendo intervenire in questi i diversi professionisti (educatori, logopedisti, etc). Un centro specializzato su questo approccio è stato aperto alla Nuova Brunella di via Crispi.

La tempestività dell’intervento riabilitativo è fondamentale, ma le risorse non sono molte. «La neuropsichiatria infantile, che prende in carico pazienti da 0 a 18 anni, ha a che fare con tutta una serie di problematicità, ma ha poche risorse – ha aggiunto Imperiali – Risorse superiori, invece, sono destinate ai disturbi cronici della salute mentale. Questo modo di dividere le risorse, per forza di cose, si traduce in meno prevenzione e più cure successive».

Gli “atti” della giornata saranno forniti all’Oms in vista delle linee guida che saranno tracciate nel 2017.