C’era una volta… il Natale

Le festività come le vivono i varesini e come le hanno apprese dai loro genitori e nonni

C’era una volta, a Varese, il Natale. Una festa che aveva il sapore di tempi difficili, di un’economia di sussistenza, ma anche della genuinità dei campi, dell’operosità delle genti, della gioia di riunire la famiglia nel giorno della festa davanti ad un unico desco essenziale, eppure assurto a leggenda nei racconti delle memorie storiche. Prima fra tutte Giovanna Venturini, 87 anni, nativa di Bobbiate, figlia dello storico fornaio Ernesto Venturini, che aveva inaugurato nel 1929 un forno a vapore,

a fianco dei locali del Circolo. «Era il migliore della provincia – racconta Giovanna – e fu aperto nell’inverno più freddo in assoluto che mi ricordi. Era un forno all’ingrosso, il nostro. Non avevamo vendita al minuto ma due garzoni che, gerla in spalla, in bicicletta rifornivano tutte le rivendite di Varese. La vigilia andavamo alla Messa di mezzanotte e mangiavamo la busèca coi borlotti. A casa mia il Natale si festeggiava il giorno dopo, perché i panificatori avevano solo un giorno di riposo all’anno a Santo Stefano, mentre a Natale lavoravano il doppio per venire incontro alle esigenze di due giorni: ed erano talmente stanchi, mio padre, i suoi tre operai e i suoi due garzoni quando finivano! Sul tavolo della festa si usava mangiare il tacchino ripieno, perché a Bobbiate li si allevavano: erano tutti piccoli affittuari terrieri dell’ingegner Bossi. Poi c’erano le file di castagne secche da succhiare, i panettoni e i torroni. Sull’albero trovavamo i cioccolatini e i mandarini, pochi balocchi perché erano altri tempi e ci bastavano».

Enrico Marocchi, classe 1942, è il presidente degli olivicoltori di sant’Imerio. Noi lo associamo solitamente a Bosto, ma in realtà è nativo di Casbeno. «Quando ero bambino abitavo con la mia famiglia in una grande casa al Mirasole, e vicino a noi c’erano le case dei miei parenti. Per Natale ci riunivamo tutti in casa mia: eravamo una ventina. Allora avevamo pochissimo: era finita la guerra da poco e di soldi non ce n’erano molti. La felicità di noi bambini era trovare un salamino o un mandarino sotto l’albero, oltre a qualche giochino di legno. Mi ricordo di un trenino che era diventato di tutti i cugini».

«Per pranzo mia madre preparava il cappone, però nella preparazione del ripieno concorrevano anche le zie: arrivavano da noi il giorno prima. E siccome a Casbeno avevano gli orti, il giorno di Natale si mangiava l’insalata. A fine estate venivano allestite, infatti, le pagliate, delle specie di serre fatte con la lisca, le canne del nostro lago. Se ne ricavavano tettoie sotto le quali veniva seminata l’insalata che, riparata dal freddo, veniva su per Natale: poi la vendevamo anche al mercato. Una tradizione che ho sempre mantenuto anche per le mie figlie è quella di fare l’albero la notte della vigilia: quando le bambine si alzavano, era subito festa».

Il Natale di Luisa Oprandi bambina, classe 1960, si svolgeva a san Fermo, quando ancora il paese nuovo era un agglomerato di cascine. «A casa mia si raccoglievano tutti i parenti, zii e cugini. Siccome mio padre, fotografo, lavorava fino alla sera della vigilia e la mamma stava con lui in negozio, ad allestire il pranzo della festa per l’indomani era la mia nonna. Io la vedevo preparare il ripieno del cappone con la carne trita, il prosciutto, le uova, il pangrattato, i sapori: lo faceva lesso, e la mostarda era immancabile. Per la sera ci faceva i raviolini in brodo oppure i tagliolini, sottilissimi. Per Santo Stefano avevamo il risotto giallo con il brodo del cappone avanzato unito a quello di gallina, che allevava la mia nonna nel pollaio».