«Ci siamo integrati a Varese. Ma siamo sempre esuli in Patria»

Morresi, nato a Pola nel ’44, fu costretto ad andarsene

«Ci siamo integrati, ma siamo stati tolti dal nostro territorio di origine. Quindi siamo esuli in patria». Nel Giorno del Ricordo, solennità istituita per ricordare le vittime delle Foibe, lasciamo la parola a Pier Maria Morresi, presidente Comitato provinciale di Varese dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Morresi è nato a Pola nel 1944. Città da cui è esiliato nel 1947 per arrivare a Varese, dove ha sempre vissuto e dove, per vent’anni, ha ricoperto il ruolo di presidente dell’ordine dei medici.


Dal desiderio di tramandare una memoria familiare. I miei genitori, che durante l’esodo avevano meno di 30 anni, ora sono morti e sepolti a Casbeno. Tutte le nostre voci si stanno spegnendo. Io ho 73 anni, anche la mia voce è in scadenza e con lei l’esperienza che invece va tramandata alle giovani generazioni, perché non si può pianificare il futuro se non si conosce il passato e non si è vissuto il presente.

No, grazie a una nostra iniziativa, i giovani laureati dell’Insubria, anni fa, hanno esaminato i quotidiani della Lombardia dal ‘45 al ‘55 riscontrando che i cittadini sapevano tutto. A quei tempi l’80 per cento della popolazione leggeva un quotidiano. C’era tanta fame di notizie.

Per un problema storico successivo al ’55. In Italia avevamo perso la guerra, e con la sconfitta si è creata una rimozione dell’accaduto. Gli Italiani, per sentirsi comunque vincitori, hanno enfatizzato il ruolo della Resistenza: sono diventati alleati degli alleati. Nello stesso momento sono arrivati gli anni del boom economico, in cui gli Usa erano il nostro esempio e noi dovevamo essere uguali a loro. Noi profughi esuli, invece, erano esempi viventi di un’altra forma di lotta partigiana, quella di Tito. La cosa è stata ancor più difficile da spiegare quando Tito si è staccato da Stalin e non ha più rappresentato il nemico.

Pola contava 32 mila abitanti, dei 28 mila hanno lasciato la città in sei mesi. Il 90 per cento della popolazione di Istria e della Dalmazia ha lasciato la terra natale. L’Italia non è stata pronta ad accogliere tutto questo. Io sono stato fortunato, la mia famiglia ha trovato lavoro a Varese, non abbiamo mai vissuto in campi profughi, vecchie caserme, dove la privacy era affidata a una coperta appesa a uno spago. I campi erano lontani tra loro, questo per disperderci e non creare una massa critica tra di noi.


C’era pudore. I miei genitori non hanno mai parlato con me. Io ho saputo le cose dai nonni. I miei genitori non parlavano in pubblico, pensavano di non essere creduti. I libri di scuola non hanno parlato dell’esodo per cinquant’anni, con il risultato che i docenti, anche quelli di oggi, spesso non sanno cosa è accaduto. A Varese stiamo creando consapevolezza negli studenti, ma a livello nazionale l’associazione sta organizzando corsi per gli insegnanti.

Ieri mi hanno chiesto che differenza c’è tra un esule e un migrante. Gli esuli, durante il viaggio in nave, lasciando la loro terra, guardano il porto da cui si allontanano, sapendo che non vi faranno più ritorno. I migranti, invece, guardano l’orizzonte, sono in cerca di un futuro migliore.

Il grosso problema dell’esule è quello di essere sradicato completamente. I miei genitori, con me, non hanno mai parlato il dialetto veneto perché avere un accento mi avrebbero precluso l’accesso a una vita scolastica varesina.

Questo però mi ha tolto le radici.