Evviva gli Alpini: «La storia della nostra festa»

Fino a Ferragosto si festeggia: tra polenta, ricordi, racconti e un po’ di nostalgia. Il capogruppo Antonio Verdelli, Rinaldo Ballerio e Silvio Botter ci hanno ospitato. La storia di una giornata

Basta un attimo. Pochi minuti dal centro di Varese, su per quei tornanti che profumano di funghi e larici, e ci si trova circondati dalla bellezza e dal silenzio. Il Campo dei Fiori, che dall’alto pare faccia da guardia alla città, è aspro e meraviglioso come sa essere soltanto la montagna. E se ci si capita in una giornata come quella di ieri, quando le nuvole che vengono dal basso lo avvolgono, diventa il posto ideale dove sedersi e farsi raccontare qualche storia.

Sono giorni particolari, su in cima: fino a Ferragosto attorno al Grand Hotel gli Alpini chiameranno la città per la loro festa. Un appuntamento del quale i varesini sono gelosi, che si ripete e si perpetua da più di quarant’anni. Si sale per mangiare la polenta, per bere un bicchiere di vino o un grappino, si sale per parlare e chiacchierare ma si sale anche per stare zitti. Ad accoglierci, a fare gli onori di casa, loro: gli alpini. Con il loro cappello in testa, orgogliosi di quello che sono e di quello che fanno, burberi e bruschi ma allo stesso tempo capaci di sorridere.

è il capogruppo degli Alpini varesini: è lui che davanti a un piatto di polenta e salsiccia ci racconta quello che c’è dietro alla loro festa. «C’è dietro una storia, lunga quarant’anni e iniziata nel 1977 quando i varesini iniziarono a salire per omaggiare le Tre Croci, qua sopra. Si saliva, si mangiava un panino col salame e si beveva un bicchiere di vino. Esserci, per ogni Alpino, era un obbligo: anche per chi veniva da lontano. Perché si andava per vedere persone con cui si era combattuto o per ricordare fratelli che erano morti in guerra».

Poi le cose sono cambiate: la festa è cresciuta, è diventata grande. «La festa dello scorso anno ha chiesto 1170 chili di farina per 118 paioli di polenta, ne abbiamo fatte circa 25mila piatti. Cento volontari che lavorano fin da un mese prima per preparare tutto». Numeri importanti, che testimoniano di come questi giorni su in cima al Campo dei Fiori siano diventati un appuntamento irrinunciabile per i varesini. «Questa festa è diventata grande grazie all’opera di Monsignor Pigionatti, che ha voluto questo luogo e l’ha fatto diventare quello che è oggi. Certo, guardare avanti è sempre più difficile».

Già: perché la festa degli alpini è anche questo. Un futuro che non si sa. «Quest’anno – continua Verdelli – piangiamo tre amici che fino all’anno scorso erano qui a lavorare con noi e ora non ci sono più. Roberto, Sandro e Federico. Gli Alpini invecchiano e muoiono, e non c’è più ricambio. Non riusciremo più a garantire questi numeri».

Intanto, però, tutto è pronto per i prossimi giorni. «Verranno in tanti e tutti saranno contenti di sedersi dove troveranno posto e mangiare insieme. Ricorerò sempre una signora che lo scorso anno è salita perché io l’avevo invitata, e non avendo trovato posto si è seduta per terra con il vassoio sulle ginocchia. Io quando l’ho vista sono andato a scusarmi e lei mi ha risposto: «Non ho mai passato un Ferragosto così felice».

Si chiacchiera: davanti alla polenta e al vino rosso, diventa naturale. , detto “il generale”, regala racconti e perle. «La bellezza del nostro Corpo è nell’assenza di ruoli. Qui c’è l’imprenditore che taglia la cipolla e il docente universitario che pulisce per terra. Il nostro cappello è la nostra carta d’identità: negli alpini non comanda chi è, ma chi fa». Ecco che allora guardare avanti diventa, anche, l’occasione per tirare fuori un po’ di rabbia. «Quando l’ultimo Alpino sarà morto, tutti si accorgeranno di quanto era importante il nostro Corpo. Gli Alpini mancheranno all’Italia, anzi: mancano già. Guardate i problemi che ci sono stati con l’emergenza degli ultimi terremoti. Se penso a quello che abbiamo fatto noi Alpini in Friuli, mi viene dentro tanta rabbia».

Si va giù. Si scende con dentro quel misto di tristezza e orgoglio che si ha quando dalla montagna si torna a valle. E si incontrano i pulmini dell’Anaconda. «Ogni anno – dice Verdelli – ospitiamo le associazioni che lavorano con i disabili. Perché per noi fare beneficenza non è solo dare qualche soldo a fine anno. Per noi significa regalare dei momenti come questo, attorno a un tavolo con la polenta, insieme. Oggi c’era un ragazzo in carrozzina, che quando mi ha salutato mi ha ripetuto “grazie” per dieci volte. Ecco, qui c’è dentro tutto il senso della nostra festa: in quel grazie. Per lui, è stato come il giorno di Natale».