«Fu crudele e sviò le indagini». Stefano Binda rimane in carcere

Caso Macchi: la Cassazione conferma la massima misura cautelare per l’indagato

Le «modalità odiose e brutali» con le quali la studentessa di 20 anni Lidia Macchi 30 anni fa è stata violentata e uccisa nel bosco di Cittiglio giustificano la detenzione in carcere di Stefano Binda, l’ex membro di Comunione e Liberazione, compagno di liceo di Lidia, accusato del delitto e dello stupro della ragazza della quale era molto amico.

Non solo, a carico di Binda esisterebbe un concreto pericolo di inquinamento delle prove e condizionamento dei testimoni: uno «specifico pericolo di inquinamento probatorio, indicando circostanze concrete e non congetturali, ragionevolmente raccordandole alla personalità dell’indagato, come delineata dagli stessi amici di un tempo fredda, calcolatrice, leaderistica, capace di esercitare un eccezionale carisma sugli altri che subivano il fascino della sua superiorità intellettuale e delle sue doti affabulatorie». Lo sottolinea la Cassazione nel verdetto 44159, depositato ieri, che contiene le motivazioni della conferma della massima misura cautelare per l’indagato.

La Suprema Corte ha convalidato il carcere il 29 aprile, dando il suo parere positivo all’ordinanza del gip del Tribunale di Varese dello scorso 11 gennaio. Secondo gli ermellini, il gip «con adeguata e logica motivazione ha esposto con chiarezza le ragioni del proprio convincimento in ordine alla ricorrenza delle ravvisate esigenze cautelari».

In particolare, la Cassazione sottolinea che il gip «ha dato conto di uno specifico pericolo di inquinamento probatorio» indicando «circostanze concrete e non congetturali» sul rischio che Binda condizioni le dichiarazioni dei testimoni sentiti per far luce su questo ’cold casè – come Patrizia B. e Paola B. – con la sua personalità «fredda, calcolatrice, leaderistica, capace di esercitare un eccezionale carisma sugli altri che subivano il fascino della sua personalità intellettuale e delle sue doti affabulatorie».

Il verdetto ricorda che alcuni informatori «hanno attuato «tentativi di depistaggio in concomitanza con il nuovo avvio delle indagini» perché all’epoca dei fatti «avevano reso dichiarazioni mendaci» per supportare l’eventuale alibi di Binda. Per la Cassazione, sono stati «sufficientemente esplicitati» dal gip i rischi del pericolo di fuga dell’indagato.

Quanto al rischio di reiterazione del reato, secondo i supremi giudici il gip lo ha desunto correttamente anche «dal dichiarato uso, ancora attuale di eroina», dalla precedente condanna contravvenzionale riportata da Binda per guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

A fronte di questi dati non si può escludere che Binda, per la sua «fragilità», man mano che vengono depositati gli esiti delle indagini, possa tornare «ad un nuovo ed ulteriore corto circuito non dissimile da quello già vissuto nel gennaio 1987» e «dare luogo a un’altra esplosione di devastante violenza drammaticamente originata o amplificata anche dall’abuso di sostanze che ne elidono il controllo».

In base alle accuse, la sera del 5 gennaio 1987, Binda aveva ottenuto con minaccia e costrizione un rapporto sessuale dalla vittima, e dopo l’aveva aggredita a coltellate, anche mentre la ragazza tentò di fuggire, «nell’intento di distruggere la donna considerata quale causa del rapporto sessuale vissuto come tradimento del proprio ossessivo e delirante credo religioso».

Lidia Macchi morì «dopo una penosa e non breve agonia», peranemia e asfissia, dopo essere stata colpita da più di 30 coltellate e abbandonata al gelo.