«I rifugiati ormai sono un business»

Dopo lo sfogo di un’educatrice parla Valentina Ameta Cama. albanese, arrivata come rifugiata

«Che la gestione dei rifugiati sia ormai un business è chiaro per tutti. Sono poche le realtà che si salvano e che “non tirano” sui ricavi» afferma Valentina Ameta Cama, presidente di “Mediazione Integrazione Onlus”, cooperativa che è nata nel 2000, che ha sede a Varese e che, soprattutto grazie alla collaborazione di mediatori interculturali e volontari, si occupa di 12 sportelli distrettuali per l’immigrazione che registrano 16 mila accessi annui, nonché di accoglienza di alunni stranieri neo arrivati nelle scuole e delle loro famiglie nei corsi di italiano e educazione civica (in particolar modo rivolti a donne straniere).

«Noi che lavoriamo per l’integrazione facciamo fatica a pagare le tasse. Le risorse per l’integrazione diminuiscono sempre a fronte dei milioni che vengono stanziati per l’accoglienza. Ma come vengono spesi davvero questi soldi? – si domanda la presidente – Non condivido la modalità di gestione dell’emergenza immigrazione. Si tratta di un tema delicato che non può essere dato in mano a tutti. A Varese sono 15 i soggetti, tra cooperative e associazioni, che si fanno carico del problema.

Secondo me sono i Comuni che dovrebbero essere più presenti. Trentacinque euro al giorno per richiedente asilo, se sono gestiti bene, consentono di far fronte alle spese, pagare gli operatori e non lasciano nessuno sofferente per il mal di denti. A Varese ci sono tante cooperative serie, ma ci sono anche tante realtà nate come funghi sull’onda dell’emergenza e in tanti casi quello che succede a Varese è uguale a quello che accade nel resto dell’Italia. Non voglio farmi influenzare dagli scandali di cui si sente parlare alla televisione, ma quando passo da via Bernardino Luini, e vedo giovani africani in coda per il cibo davanti al cancello delle suore, il dubbio che siano affamati mi viene. Lo stesso dubbio mi viene quando passo da Corso Matteotti e vengo fermata da giovani ragazzi africani che mi chiedono un euro».

Valentina è arrivata a Varese 27 anni fa dall’Albania per richiedere asilo politico. «All’epoca eravamo in 5, adesso si parla di 1800 richiedenti asilo sul territorio della provincia di Varese – ricostruisce la presidente – Ricordo di aver sofferto tantissimo anche solo per ottenere una informazione perché all’epoca in Questura a Varese non avevano la minima idea sulla gestione di una richiesta d’asilo perciò siamo stati indirizzati a quella di Milano. E’ perché ci sono passata in prima persona che sono diventata promotrice degli sportelli rivolti ai migranti offrendo accoglienza, informazione, consulenza, orientamento sulla conoscenza dei diritti ma anche dei doveri, sempre nel rispetto della legge vigente. Riguardo l’asilo, abbiamo offerto per tutti questi anni il servizio di mediazione linguistico culturale qualificato all’ufficio asilo della Questura di Varese e, sempre in tema d’accoglienza, anche allo Sportello Unico della Prefettura UTG di Varese con i nostri operatori interculturali nell’ambito di vari progetti».

Cosa si può fare, dunque, per migliorare il sistema dell’accoglienza? «A mio parere l’accoglienza dovrebbe essere gestita dai Comuni e non delegata ai privati, perché solo così si può controllare davvero come vengono spese le risorse dello Stato». «Non mi risulta che nella prima accoglienza sia necessario rendicontare le spese, il che agevola i disonesti. Infine, i tempi per ottenere la risposta di una richiesta di asilo dovrebbero essere più brevi: in tanti Stati bastano 3 mesi per ottenere un permesso umanitario. Come mai in Italia ci vogliono due anni?».

Non ultimo: «meglio sarebbe che i 3 miliardi che in Italia vengono spesi per l’accoglienza fossero mandati in Africa per aiutare le persone nel loro Paese, aprendo posti di lavoro, come si sta facendo adesso stipulando accordi con la Tunisia e la Libia. Il sistema che abbiamo incoraggia tanti giovani a rischiare la vita per arrivare in Europa».

Dopo 27 anni trascorsi Varese, Valentina Ameta Cama si sente più varesina che albanese. «La differenza tra noi, che siamo arrivati dall’Albania quasi 30 anni fa, e i ragazzi che provengono dall’Africa oggi, è la mentalità, che dipende dalla cultura di provenienza. Noi volevamo stare in Italia, era il nostro obiettivo. Oggi, invece, l’Italia viene vista come un Paese di passaggio: il desiderio dei richiedenti asilo è quello di approdare in Germania e nei paesi del Nord Europa. Credo che l’accordo di Dublino, attraverso il quale vengono rispediti in Italia i migranti identificati per la prima volta nel nostro Paese, non vada bene e vada rivisto perché non aiuta nessuno e perché bada soltanto a dove sono state raccolte le impronte e non alla famiglia si che vuole ricongiungere».

«Varese ormai è la mia città – continua la presidente – Ho vissuto più qui che in Albania. L’Italia è a tutti gli effetti sento come il mio Paese. Per quello non mi giro dall’altra parte quando vedo cose che non funzionano e faccio di tutto per risolvere i problemi».